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STATI UNITIIl padre del killer di Orlando: «Non lo perdono»

13.06.16 - 20:42
A casa di Omar, giochi e libri sull'Islam
Il padre del killer di Orlando: «Non lo perdono»
A casa di Omar, giochi e libri sull'Islam

ORLANDO - "Non lo perdono". Il padre del killer di Orlando, Seddique Mateen, condanna il gesto folle del figlio, che a colpi di fucile d'assalto ha compiuto la più sanguinosa strage della storia americana.

Seddique parla dall'interno della sua abitazione, a circa 150 chilometri da Orlando. Riceve i giornalisti perché, dopo le prime dichiarazioni a caldo, vuole inviare un messaggio chiaro.

Specie dopo che diversi media hanno riportato che in un video postato questa mattina sulla sua pagina Facebook, in dari, Saddique afferma che suo figlio era ben educato e rispettoso dei suoi genitori, e di non sapere "quale sia il motivo che lo ha spinto ad entrare in un gay club e uccidere 50 persone".

Per poi aggiungere che "la punizione" per i gay spetta a Dio. E "Dio punirà coloro coinvolti nell'omosessualità". Ma per questo, "non è una questione che dovrebbero affrontare gli essere umani". Si tratta di un video che per lo più è diretto all'Afghanistan, suo Paese d'origine, in cui spera di tornare un giorno da presidente, come ha detto. E agli afghani, in un comunicato, ha anche affermato che suo figlio "era un bravo ragazzo".

Ai giornalisti più tardi ha invece detto: "non lo perdono per quello che fatto. Non so perché lo ha fatto, cosa lo abbia spinto. Io gli ho sempre insegnato cose positive". E ancora, evidentemente provato, afferma, "io rispetto i gay, non sono affari miei quello che fanno". E dice di non aver mai notato nulla di strano in suo figlio: qualche intolleranza verso il mondo gay è emersa solo di recente, nel corso di una vacanza con l'intera famiglia nei pressi di Miami. Lì Omar ha visto due ragazzi scambiarsi effusioni all'interno di un bagno e subito ha espresso la sua frustrazione. Ma nulla di più.

Ieri aveva invece detto che l'episodio è avvenuto davanti a sua moglie e suo figlio e Omar "era molto arrabbiato". Ma oggi ci tiene a dire che è "triste, è una brutta giornata" E "voglio dire chiaramente che sono contrario all'atto di terrore perpetrato da mio figlio. Non me lo aspettavo". "Parlavamo sempre di religione ma non ho mai visto alcun segnale. Con le famiglie delle vittime mi voglio scusare, ma realmente non so perché lo ha fatto", afferma ancora.

Seddique ripercorre l'ultima volta che ha visto suo figlio: era sabato pomeriggio quando Omar, in uniforme, era passato a casa dei genitori a salutarli. "Lavorava qui vicino, passava due o tre volte alla settimana. Quando è venuto qui sabato pomeriggio aveva l'uniforme, pensavo andasse al lavoro, non ho notato nulla di strano" sottolinea, ribadendo in più occasioni la propria tristezza per quanto accaduto.

Seddique è arrivato negli Stati Uniti negli anni '80, dopo l'invasione della Russia in Afghanistan. La prima tappa è stata New York: "Ero single allora, poi mi sono trasferito a Port St.Lucie dove vivo dagli anni '90. Quando sono arrivato qui avevo già quattro figli".

Nella sua testimonianza, durata una quindicina di minuti, dal salotto di casa, seduto sul divano senza scarpe, Seddique chiude: "Sono molto triste, non lo perdono per quello che ha fatto. Sono triste per le perdite di vite umane, per le famiglie di una comunità che sento mia".

Strage Orlando, a casa di Omar, giochi e libri sull'Islam - Omar Mateen, autore della strage più sanguinosa della storia d'America, abitava a Fort Pierce, a 140 chilometri da Orlando, al 2500 South 17th Street. Il condominio ora è sotto l'assedio dei media

Un'abitazione modesta, in un comprensorio di palazzi bassi, ora per la maggior parte evacuati per motivi di sicurezza. Nel parcheggio la sua auto, una Toyota grigia datata, sigillata dall'Fbi.

A presidiare la casa, dopo la tempesta causata dalle perquisizioni delle autorità, restano alcuni agenti per tenere lontano i curiosi. Nessuno parla: nell'area residenziale dove Omar abitava c'è silenzio, tutti se ne stanno rintanati in casa. Sulle strade limitrofe poche auto si incrociano, il primo punto per un caffè è solo ad alcuni chilometri di distanza.

L'appartamento di Omar al numero 107, al piano terra, è chiuso. O almeno la porta principale lo è. Il retro, che si affaccia su un giardino interno, è aperto. Entrando c'è un divano a due posti di pelle marrone. Sulla destra la camera da letto del killer: foto di famiglia, giocattoli di sua figlia, e un gran disordine in parte legato alle perquisizioni. Ma l'impressione è che il killer, quando è uscito l'ultima volta, si aspettasse di rientrare.

Sul letto ci sono due borsoni e un libro dal titolo 'Being Palestinian make me smilè. Nella camera domina un'enorme cassettiera con un grande specchio: sono sommerse da foto del killer e della sua famiglia, ma anche giocattoli di 'Hello Kitty' e palloncini rosa. In cucina due manuali sull'Islam: 'Muhammad who is He?' e 'Crucial Matters in the Life of a Muslim'.

Accanto la camera della bambina: una camera tutta rosa, con il pavimento sommerso dai giocatoli. Sul tavolo del salotto ci sono alcuni documenti lasciati dall'Fbi. In quest'abitazione Omar viveva da diverso tempo con la famiglia. Il suo posto di lavoro era nelle vicinanze, a una ventina di chilometri, vicino casa dei suoi genitori a Port St. Lucie.

Era "instabile, misogino e razzista", racconta Daniel Gilroy, un suo ex collega. "Sempre arrabbiato, non c'era mai una volta che non lo fosse. Parlava spesso di uccidere", ricorda Gilroy, che in passato ha fatto presente l'atteggiamento di Omar Mateen alla società G4S dove lavoravano.

"In alcune occasioni ha fatto riferimento agli ebrei e ai gay, usava un linguaggio offensivo, per questo l'ho riferito alla società". Ma Gilroy ammette di sentirsi in colpa per non aver insistito con il suo datore di lavoro affinché prendesse misure contro Omar: "Mi sento colpevole, se avessi insistito forse avrei salvato 50 persone".

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