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In fila per toccare il Tetto del Mondo, fra spazzatura (e cadaveri)

L'Everest deve fare i conti con il turismo di massa
L'Everest deve fare i conti con il turismo di massa

Quando chiesero, durante un intervista del 1923, a George Leigh Mallory, pioniere delle scalate sul monte Everest, perché persisteva nell'impresa di volerlo scalare, l'uomo rispose «Because it's there»: perché è lì o, in senso più lato, perché lui c'è, esiste.

La sola idea che esistesse un simile gigante di pietra, una meraviglia della natura, era motivo più che sufficiente per provare a scalarlo, anche a costo della vita. Nei decenni successivo, l'Everest, il monte più alto del mondo con i suoi 8'848 metri di altezza, ha continuato a essere un polo d'attrazione irresistibile per tutti coloro che nello scalare una montagna vedono molto più di un mero gesto atletico, ma inseguono una sfida con sé stessi e una immersione totale nella Natura, lontani dal caos e dal rumore.

Imago/Cavan Images

 In coda per la vetta

Molto spesso, però, l'idea che ci si fa di un luogo non corrisponde alla realtà, e il desiderio di silenzio e pace contrasta con la foto, divenuta famosissima nel 2019, scattata dallo scalatore nepalese Purja Magar in cui si vedono centinaia di alpinisti in coda sulla cresta dell'Everest «come in una affollata località sciistica», come disse il regista statunitense Dirk Collins al National Geographic. Il sovraffollamento, per quanto sia difficile da immaginare ai più, è divenuto un problema molto serio e pericoloso sull'Everest dove ogni minimo errore può pagarsi con la vita.

La crescita di popolarità dell'alpinismo, e il fatto che sul monte Everest il clima favorevole per una buona scalata possa ridursi a poche settimane all'anno, sono i motivi principali che hanno determinato il fenomeno del sovraffollamento in quota, specialmente sul versante nepalese della montagna. Le vie di salita più praticate sono molto strette e se, in certi punti, è possibile passare in due persone alla volta, solitamente bisogna passare uno per volta, e ciò comporta che gli alpinisti passino molto tempo fermi ad aspettare che il passaggio si liberi e sia praticabile.

Reuters

Se l'attesa ti uccide

Secondo molte guide esperte, queste lunghe attese espongono le persone al rischio di rimanere senza ossigeno che, a quelle quote, è particolarmente rarefatto e non sono mancati anche episodi in cui, le bombole di ossigeno date in dotazione agli scalatori, sono state rubate. Un approfondimento giornalistico della Bbc del 2019, ripreso dalla testata giornalistica Open, aveva messo in correlazione il numero record di morti tra gli scalatori e il problema del sovraffollamento. Nella primavera di quell'anno il numero degli alpinisti morti, dieci per la precisione, aveva superato quelli di tutto il 2018, attestandosi come uno dei più alti della storia.

Il dato allarmante è il fatto che solo un numero limitato di decessi fu causato da un incidente mentre, negli altri casi, le morti furono determinate da una serie di concause tra cui, certamente, hanno influito anche i lunghi tempi di attesa che minano il fisico dell'atleta. Il cosiddetto 'mal di montagna', infatti, si verifica a quelle altitudine per carenza di ossigeno che causa respiro affannoso, cefalea, stato confusionale e può portare al coma e alla morte.

Ciò è ancora più vero se, in barba alle regole comportamentali sull'acclimatamento in altitudine, le persone decidono di compiere scalate troppo rapide o, come detto, sono costrette a fermarsi per troppo tempo in un posto in attesa di poter continuare la scalata, o ridiscendere perché il passaggio è ostruito. Il sovraffollamento, poi, comporta un ulteriore risvolto negativo: l'inquinamento dell'ambiente circostante.

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Lordura in altura

Come è ben noto, infatti, la folla lascia sempre dietro di sé una scia di oggetti buttati, abbandonati, persi, sparsi senza alcuna cura per l'ambiente circostante. Il noto alpinista nepalese Tenzi Sherpa ha di recente denunciato, tramite un video pubblicato su Instagram e ripreso da El Pais, questo grave stato di cose. Lungo il percorso verso la vetta è possibile trovare un campionario variegato di rifiuti che vanno dalle bombole di ossigeno alle scarpe, dalle tende abbandonate agli utensili più vari: «più di mille chili di spazzatura», come dallo stesso affermato.

Per non considerare poi le deiezioni umane che, come denunciato dal Nepal Mountaineering Association, riappaiono in superficie con lo scioglimento dei ghiacci con gravi conseguenze sanitarie dato che queste acque vengono sfruttate nei centri abitati grazie a un sistema integrato. Nonostante le autorità nepalesi abbiano raccolto tonnellate di rifiuti, sull'Everest e sul vicino Lhotse, vi è ancora tanto da fare per ripristinare lo stato dei luoghi.

In soli settant'anni, infatti, si è passati dal paesaggio incontaminato, ammirato per la prima colta nel 1953 da Edmund Hillary e Tenzing Norgay, ad un accumulo di immondizia che fa gridare allo scandalo gli amanti della montagna. I rifiuti raccolti grazie a squadre di scalatori esperti, vengono poi riportati a valle e bruciati in fosse aperte andando a danneggiare ulteriormente l'ecosistema circostante.

Per tentare di contrastare il problema dell'inquinamento, le autorità nepalesi hanno predisposto delle nuove regole di raccolta dei rifiuti, imponendo ad ogni scalatore che parte per l'ascesa di riportare con sé, in fase di discesa, almeno otto chilogrammi di rifiuti, una sorta di stima di quanto prodotto nel tempo necessario a compiere la scalata.

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Everestour

La verità è che, se fino a qualche decennio fa, l'Everest era una meta ambita solo da pochi ardimentosi scalatori dotati di tempra eccezionale e grande tecnica, da qualche anno è esplosa la moda delle spedizioni semi-turistiche che vedono coinvolte anche persone non dotate della giusta preparazione tecnica.

Non tutte le agenzie che organizzano le scalate, così come denunciato da molti esperti, sono rigorose nel domandare ai propri clienti notizie sul proprio stato di salute e sulla propria condizione atletica e ciò, se non si può dire per certo che abbia determinato l'aumentare del numero delle morti, di certo ha aumentato il rischio che tale evento possa accadere.

Sul monte Everest sono morte più di trecento persone, dodici solo quest'anno e secondo Alan Arnette, un alpinista statunitense che da anni segue con particolare interesse le spedizioni himalaiane, ciò è dovuto all'abbattimento dei costi di organizzazione delle spedizioni da parte di agenzie di non comprovata esperienza.

Si sta inoltre diffondendo l'abitudine da parte dei giovani scalatori di spingere la propria prestazione oltre il limite, andando incontro a un rischio sempre maggiore di morire. Come scritto da Arnette nel suo blog, il fatto che tanti si vantino di non far uso di bombole d'ossigeno o scalino senza una guida contribuisce a diffondere il falso messaggio che chiunque possa o debba compiere delle gesta simili.

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Una valle costellata di cadaveri

Dopo aver lasciato l'ultimo campo, dei quattro che si trovano lungo il percorso verso la vetta, a circa ottomila metri d'altezza, inizia la cosiddetta 'Death Valley' dove è possibile vedere con i propri occhi quanto possa costare l'ascesa al monte Everest. Si scorgono diverse macchie di un colore brillante, ma è solo avvicinandosi a una di esse che ci si accorge che a essere colorati sono gli indumenti indossati dai cadaveri degli scalatori morti lungo il percorso.

"La valle dell'arcobaleno", così viene chiamata la zona che, a dispetto del nome fiabesco, è il cimitero a cielo aperto di tutti coloro che non ce l'hanno fatta. Molti corpi sono perfettamente conservati, dato che la temperatura estremamente bassa non permette la decomposizione dei corpi che restano congelati o mummificati, e ognuno di loro ha una storia di speranza e morte da raccontare.

Molti sono diventati celebri, come "Green Boots", la cui identità non è ancora conosciuta, e prende il suo nome dagli stivali verdi indossati durante la scalata. L'uomo giace sdraiato sul fianco sinistro con il viso rivolto verso la vetta. La sua presenza era diventata un punto di riferimento sulla rotta nord fino a che, nel 2014, non è scomparso, rimosso o sepolto in qualche luogo. Il corpo di Shriya Shah-Klorfine, invece, è avvolto nella bandiera del Canada ed è anch'ella usata come punto di riferimento, perché il suo corpo giace ad appena 300 metri dalla vetta.

Il costo delle operazioni di recupero sono altissime ed è tecnicamente difficile organizzare delle spedizioni di salvataggio che potrebbero costare la vita ai soccorritori stessi: «Sei lì che cammini, è una splendida giornata e all'improvviso vedi qualcuno morto - disse tempo fa, Ed Viestrus, un noto alpinista statunitense, a proposito della Valle dell'Arcobaleno - è una improvvisa presa di coscienza». La voglia di sfidare la morte è, da sempre, una costante dell'uomo anche se non si sa mai chi vincerà la partita.


Appendice 1

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