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CANTONECoronavirus: «La "normalità" non è ciò a cui dobbiamo aspirare»

22.04.20 - 06:38
Stato sociale, solidarietà e lavoro non per creare cose, ma per l'uomo. La ricetta dell'economista per la rinascita
tipress
Coronavirus: «La "normalità" non è ciò a cui dobbiamo aspirare»
Stato sociale, solidarietà e lavoro non per creare cose, ma per l'uomo. La ricetta dell'economista per la rinascita

LUGANO - Il coronavirus ha contagiato l'economia mondiale. I danni sono sulla bocca di tutti: licenziamenti, chiusure di piccole e medie imprese, eventi e fiere cancellati. E questo solo nell’immediato, senza calcolare i danni preventivabili nel medio e lungo termine. Trovare la chiave per una lettura in positivo, dentro a tutto questo caos, sembra un'impresa quasi alchemica. 

«C’è ancora chi sta lavorando bene. Ad esempio chi produce mascherine, disinfettanti. Oppure il settore alimentare e farmaceutico. O anche le industrie legate al digitale o alla distribuzione, che stanno andando forte», sottolinea l’economista e docente Supsi, Christian Marazzi. «Bisognerà vedere però come si uscirà da questa impasse, perché se gli altri, quelli più colpiti dalla crisi, non si riprenderanno, anche queste realtà saranno costrette a rallentare».

Riusciamo a intravedere uno spiraglio di luce in questa situazione di crisi?
«Stiamo attraversando un periodo in cui siamo messi tutti a dura prova. Tuttavia ci sono alcuni aspetti positivi che si intravvedono, ma che non necessariamente sopravviveranno qualora dovessimo uscire da questa grande crisi. Una serie di tabù che si sono cristallizzati in questi decenni, penso ad esempio allo Stato sociale e al suo ruolo nell’economia, stanno crollando sotto gli occhi di tutti. Sono proprio coloro che in passato l’hanno più criticato ad attingervi oggi a piene mani grazie alle misure di sostegno all’economia decise dalla Confederazione». 

Parliamo di aziende e banche?
«Certo, ma non solo. Fino a poco fa individuavano nello Stato sociale un fattore di disturbo della libera concorrenza e dell’autoregolazione del mercato. Oggi, invece, è chiara la necessità di una presenza attiva dello Stato sociale nell'economia».

In quali ambiti?
«Quello della sanità, tanto per cominciare. Ma anche in una serie di altri settori che dovrebbero rappresentare l’intelaiatura della società post coronavirus». 

Ad esempio?
«Penso al settore della socialità e quindi a tutto ciò che ha a che fare con le relazioni sociali e con la cura; a quello della formazione, e in particolare della ricerca, su cui dovremo puntare strategicamente, e poi a quello della cultura. Perché la cultura si sta rivelando fondamentale come antidoto alla solitudine. E naturalmente al settore dell’ambiente. Dobbiamo assolutamente fare tesoro di quanto stiamo riscoprendo: un’aria più respirabile e una natura che si presenta in una veste diversa. Questi sono settori in cui l’uomo lavora per l’uomo, attività antropogenetiche in cui si lavora non per produrre cose, ma per produrre soggetti e che rappresentano la nuova anima dello Stato sociale. È qui che bisognerebbe investire in modo tale da ridefinire il rapporto fra pubblico e privato».

Non intravede il rischio di una ripartenza che faccia dimenticare tutte queste riflessioni e piccole conquiste per rimettere in moto la vecchia macchina dell’economia, del profitto?
«Il rischio è altissimo. Non sarà indolore il passaggio. Dovremo lottare per affermare queste positività e renderle durature. C’è una battaglia di idee che sta per esplodere e in parte sta già esplodendo, attorno a ciò che ci ha portato qui. Non possiamo far finta di niente e pensare che questo virus sia caduto dal cielo. È semmai sintomatico di una serie di contraddizioni, di modi di produrre, di modi di bistrattare l’ambiente, che ci hanno portato a una società in cui le difese immunitarie sono ormai estremamente deboli. Tutta una serie di valori negativi, come l'individualismo, l'opportunismo e il cinismo, che abbiamo visto prevalere in questi ultimi decenni, ci hanno condotto a questa crisi di dimensioni spaventose». 

Quando torneremo alla normalità quindi?
«La domanda, semmai, è: “vogliamo tornare alla normalità di prima?”. Siamo liberi di farlo, certo, ma con la possibilità di andare a picchiare di nuovo contro il muro e, temo, anche abbastanza presto. Il ritorno alla normalità è incombente. Le forze che agiscono in questa direzione sono molto potenti. Altrettanto potente deve essere però la resistenza contro quella sorta di angelica neutralità rispetto alle cause che ci hanno condotto a questo punto. Non possiamo e non dobbiamo essere neutrali».

Come si può uscire da questa situazione?
«Dovrebbe affermarsi prima di tutto un reddito di base incondizionato. Sia per far fronte all’impoverimento di una parte importante della popolazione, sia per uscire da questa crisi. Ci deve essere una domanda di beni e servizi in grado di permettere la continuazione di tutte quelle economiche che in questo periodo si stanno indebitando. Ecco che quanto bocciato solo pochi anni fa ritorna in tutta la sua necessità e positività».

Cos’altro dovrebbe cambiare? 
«Il nostro sguardo sul frontalierato. È importante che si capisca fino in fondo l’importanza dei lavoratori frontalieri per il nostro Paese. È il momento di fare tesoro del loro apporto». 

D’altra parte mai come adesso si parla di solidarietà.
«Siamo tornati a mettere in discussione quegli assiomi tipici del pensiero liberista secondo cui ognuno basta a sé stesso. Mai come adesso è chiaro quanto ognuno di noi abbia bisogno dell’altro».

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