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L'INTERVISTAMilicevic-Maric, amicissimi a distanza

26.09.23 - 10:00
Tanto Belgio per l'ex centrocampista ticinese: «Il fiammingo? Potrei chiedere a Mijat di darmi delle lezioni, magari in videochiamata»
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Milicevic-Maric, amicissimi a distanza
Tanto Belgio per l'ex centrocampista ticinese: «Il fiammingo? Potrei chiedere a Mijat di darmi delle lezioni, magari in videochiamata»
Titoli, Champions, panchina, la chiacchierata con Petkovic per la Nazionale... per Danijel tutto è cominciato da Osogna: «Casa mia è il Ticino».
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GENT - Nato a Bellinzona, cresciuto a Osogna in una famiglia di origini bosniache, prestissimo partito per Yverdon per non tornare più indietro. Negli ultimi quindici anni poi, salvo una breve parentesi francese, ha vissuto in Belgio. Il primo quesito, quando si ha a che fare con Danijel Milicevic, è obbligatorio: dove si sente a casa?

«È una bella domanda - ci ha risposto l'ex calciatore - Me la fanno un po' tutti. È da quasi metà vita che sono lontano dai luoghi dove sono cresciuto, ma se dovessi scegliere non avrei dubbi: casa mia è il Ticino. C’è la mia famiglia, ci sono i miei genitori, anche se adesso sono in pensione e fanno un po’ la spola tra la Bosnia, la Serbia e la Svizzera. C’è mia sorella Juli, alla quale sono molto legato, i miei amici... il Belgio è importante, ma nel mio cuore è al secondo posto».

Ex calciatore di alto livello, da un paio d'anni il 37enne ha appeso gli scarpini al chiodo. Ha voltato pagina per cominciare una seconda vita. Ora è un imprenditore - ha aperto un ristorante in Belgio - oltre che il tecnico del Gent.

«Vice - ci ha corretti Danijel - per la transizione tra campo e panchina ho scelto una via soft. Quello attuale è un ruolo che mi piace: sei sempre sul rettangolo di gioco e sei in contatto con i giocatori. Alla fine la grande differenza è che non giochi la domenica, non corri. Non è male insomma. È un passaggio in vista di un futuro nel quale spero di poter essere l'allenatore principale. Sto studiando per diventarlo. Per quanto riguarda il ristorante, invece, il 1. ottobre saranno tre anni che è aperto. Sono molto contento di come sta andando, di come è stato accolto qui a Gent».

La città dove ti sei tolto alcune delle maggiori soddisfazioni da calciatore.
«Una città fantastica, con uno stile di vita molto interessante. Anche grazie ai successi avuti da professionista, qui mi hanno adottato. Il pallone mi ha aiutato: non credo che se fossi stato protagonista in una squadraccia sarebbe stato lo stesso».

Ristoratore significa buona forchetta?
«Adesso posso sedermi a tavola con serenità. Per più di vent'anni, da sportivo, ho fatto dei sacrifici. Li ho fatti con piacere, sia chiaro, e mi sono anche abituato a uno stile di vita sano che mantengo ancora, insieme al peso forma. Davanti a un dolce, ora però non mi tiro indietro. Ci penso un attimo e poi mi dico: "non gioco più..."».

Ticino. Calcio. Belgio. Si parla di Danijel Milicevic. Si potrebbe parlare di Maric.
«Calma, non scherziamo. Siamo entrambi "ex" ma io non sono così vecchio. Lui si è ritirato perché non ce la faceva più, io solo per scelta. Battute a parte, Mijat è un mio grande amico, è stato anche il mio testimone di nozze. Ci sentiamo spesso, abbiamo trascorso un paio di giorni assieme poco tempo fa: quando il Lugano è venuto in Belgio per affrontare l'Union Saint-Gilloise nel preliminare di Europa League. Ha chiuso alla grande la carriera, peccato solo non sia riuscito a giocare la finale di Coppa Svizzera». 

Il suo presente è da talent manager a Lugano.
«So che, giustamente, ora vuole trascorrere un po' di tempo con la famiglia dopo aver girato tanto. È stato a San Gallo, a Bari, in Belgio...».

Dove ha imparato il fiammingo.
«Nelle stagioni oltre Gottardo ha imparato il tedesco. Così per lui il passaggio al fiammingo è stato più facile. Le due lingue si somigliano. Io invece, dopo tanti anni, ancora fatico. Lo capisco, certo, parlarlo però è un'altra cosa. Potrei chiedere a Mijat di darmi delle lezioni. Magari un'ora a settimana in videochiamata...».

Lui alla fine in Ticino ha saputo lasciare il segno. Non esserci riuscito, è per te stato un dispiacere. C'è del rammarico?
«No, però mi sarebbe sicuramente piaciuto essere profeta in Patria. Ma la strada di un calciatore è piena di imprevisti: la mia mi ha portato in Belgio, dove mi sono tolto le mie soddisfazioni».

La possibilità di tornare però l'hai anche avuta. Una chiacchierata con il Lugano, prima dell'ultimo contratto, l'avevi fatta.
«È vero ma, appunto, nulla più che una chiacchierata. Anche nel 2017 ci fu qualcosa con lo Young Boys; di offerte concrete non ne ho però mai ricevute».

Per qualche mese, nel 2015, è sembrato che la tua strada potesse condurti anche in Nazionale.
«C'era Vlado Petkovic, che conoscevo da tantissimo tempo: è l'allenatore che, nel 2004, mi fece esordire tra i professionisti a Lugano. Ci eravamo sentiti, mi aveva fatto i complimenti per via della vittoria del campionato ed eravamo rimasti in contatto. L'anno seguente giocammo in Champions League e io brillai: segnai tre gol e diedi due assist. A quel punto cominciarono a chiamarmi tutti chiedendo perché non facessi parte del gruppo rossocrociato. E Vlado, insieme a Manicone, approfittò della nostra partita con il Wolfsburg di Ricardo Rodriguez per venire a vedermi. Pranzammo insieme e, pur sottolineando che stavo facendo bene, mi avvisò che nella mia posizione già c'erano parecchi giocatori importanti e che una chiamata sarebbe stata difficile».

Fu corretto.
«Sì...».

Un'esperienza con una selezione tu però l'hai fatta: tre match con la Bosnia.
«Mehmed Bazdarevic, leggenda jugoslava nonché allenatore della Bosnia, che già avevo sentito prima di Vlado e che mi aveva detto della possibilità della convocazione, si fece sotto. Mi seguì in un match a Lione dove feci gol, mi chiamò dopo il Wolfsburg... e così accettai. E a trent'anni compiuti riuscii così a coronare un sogno».

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COMMENTI
 

Stefy43 7 mesi fa su tio
sacrifici sarebbero mangiar sano, una vita in salita
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