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«Ho spremuto il mio corpo all’osso per vent’anni, ora mi dice: “grazie di aver pensato anche a me”»

LUGANO«Ho spremuto il mio corpo all’osso per vent’anni, ora mi dice: “grazie di aver pensato anche a me”»

02.05.23 - 06:30
«Ho avuto la possibilità di andare al Bellinzona ma ho deciso di chiudere la carriera a Lugano»
TI-Press
«Ho spremuto il mio corpo all’osso per vent’anni, ora mi dice: “grazie di aver pensato anche a me”»
«Ho avuto la possibilità di andare al Bellinzona ma ho deciso di chiudere la carriera a Lugano»
«Il fiammingo è quasi peggio dello Schwyzerdütsch».
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LUGANO - Ex giocatore, (forse) futuro allenatore. Mijat Maric sta "imparando" a Lugano.

Un anno fa, giorno più giorno meno, era concentrato sugli attaccanti rivali e sugli scricchiolii del suo corpo. Ora invece, voltata pagina, pensa ai calciatori di domani e a un domani, il suo, ancora tutto da scrivere. Tolti gli scarpini, dalla scorsa estate Mijat Maric è il talent manager del Team Ticino. In questa sua nuova vita sta lavorando, sta studiando, sta anche un po’ penando.

«Con il Team Ticino sta andando bene - ci ha raccontato proprio Mijat - sinceramente mi aspettavo un po’ più di campo e invece ho fatto molta scrivania e organizzazione. Ma va bene: dopo tanti anni di calcio giocato sto scoprendo un mondo nuovo tra organizzazione, regole, struttura. È qualcosa di interessante. C’è tanta politica, ma non solo nel nostro Cantone. Oltre Gottardo, all’estero… mi sono informato, è tutto così. Dobbiamo imparare a conviverci e a sfruttarla al massimo per il bene dei ragazzi».

È quello che vuoi fare da grande?
«Vediamo. Sto gettando le basi. Sto imparando tantissime cose nuove. Quando giochi vedi solo il campo, la partita, la settimana. Ma c’è tutto un mondo dietro: l’organizzazione di una società, la struttura, il settore giovanile che è importantissimo, le federazioni. E a proposito di federazioni, quella Svizzera, me ne sto rendendo conto, sta svolgendo un lavoro enorme. Di qualità. Che spesso sottovalutiamo. Da noi spesso si cerca la critica o quello che non va. Se invece si guardasse con attenzione quello che è stato fatto negli ultimi venti anni, ci si accorgerebbe che è qualcosa di incredibile. Dobbiamo andarne fieri». 

I risultati della Nazionale sono lì a testimoniarlo.
«Ho avuto la possibilità di viaggiare, di seguire vari tornei, di club e delle nazionali giovanili. E quando ti presenti e dici che sei svizzero, calcisticamente intendo, ti guardano con molto rispetto. Noi ci paragoniamo spesso ad altre nazioni, però… faccio l’esempio della Croazia: lì il calcio occupa il primo posto nell’interesse generale. Qui invece abbiamo l’hockey, lo sci, il basket, la pallavolo. Abbiamo tanti sport importanti in un Paese così piccolo. Ci prendono tanti talenti. Solo lavorando bene c’è la possibilità di ottenere buoni risultati».

Hai superato lo shock del non essere più calciatore?
«Volete una risposta onesta? È dura. Pian pianino sta prendendo forma la mia nuova vita, è vero, ma smettere è stato veramente difficile. Mi manca la competizione, mi manca il campo. Però il mio corpo mi ringrazia del fatto di aver smesso: l’ho spremuto all’osso e dopo vent’anni di preparazioni e allenamenti giornalieri, mi dice: “grazie di aver pensato anche a me”». 

Mancherà pure lo spogliatoio, si immagina…
«Lo spogliatoio, il contatto con i ragazzi e la partita: i primi mesi ho fatto fatica ad andare a Lugano a vedere i match. In più dovete considerare che non ho smesso e me ne sono andato: sono sempre in contatto con Sabbatini, Daprelà… tutti i ragazzi con i quali ho giocato fino a ieri, che sono ancora protagonisti. E io sono fuori. E questa cosa è tosta mentalmente». 

Con loro il rapporto è rimasto lo stesso?
«C’è la stessa complicità. Quella rimane. Quella rimarrà negli anni anche se andranno via o quando smetteranno. Lo vedo con quelli che sono stati miei compagni quando ero in Belgio: ci sentiamo regolarmente e c’è sempre quel feeling. Quel “qualcosa” di particolare per aver condiviso una parte emozionante e importante della nostra vita». 

Hai giocato in Belgio, in Italia, ovviamente in Svizzera… tante avventure.
«Sì. E il fatto di vivere profondamente altre culture, non solo come professionista di passaggio, mi ha aiutato molto. L’esperienza in Belgio, lunga nove anni, mi è per esempio rimasta dentro. I miei figli sono nati lì. Ho legato tanto con il Paese, con la gente del posto… ho avuto anche la fortuna di imparare il fiammingo».

Non semplicissimo.
«Quasi peggio dello Schwyzerdütsch». 

Il futuro potrebbe vederti allenatore. Significherebbe probabilmente stare lontano da casa.
«E potrebbe essere un problema. Almeno per adesso. Per questo motivo, grazie alla società, a Roman Hangarter, ho scelto questo percorso un po’ più soft che mi permette di imparare tanto ma anche di rimanere a casa. I miei bimbi adesso hanno 8 e 5 anni e vorrei godermeli. Vorrei godermi questo periodo della loro vita che passa tanto, troppo in fretta. Così in fretta che non te ne rendi nemmeno conto. Poi un domani saranno magari loro a voler andare via di casa o a sperare che io vada ad allenare lontano, magari in Belgio».

Nella prima turbolenta parte della scorsa stagione, Maric è stato vicino al Bellinzona. Poi c’è stata la nomina di Croci-Torti e la storia è cambiata…
«La possibilità c’è stata ma alla fine ho deciso di rimanere e chiudere la carriera a Lugano. Mi aspettava l’ultimo anno e, anche parlando con Carlos da Silva, avevo già in testa questo futuro. C’è in più stata la promozione di Mattia. La società stava cercando l’allenatore e noi come squadra abbiamo un po’ spinto: eravamo tutti favorevoli che fosse proprio lui a guidarci. Poi è andata alla grande».

C’è stata l’apoteosi della Coppa. 
«E dire che prima è successo di tutto e di più. La vendita della società, l’arrivo di Braga come allenatore, in seguito nuovi proprietari, poi la scelta di Mattia… Noi calciatori siamo stati bravi a rimanere lucidi e compatti. Questo nonostante metà squadra fosse in scadenza di contratto, io sapevo che avrei finito, e altri, come Lovric, già avevano la certezza che sarebbero partiti. Siamo rimasti uniti. Abbiamo chiamato la nostra avventura “The last dance” di un gruppo che era insieme da due-tre anni». 

A giugno potrebbe esserci lo stesso finale.
«Ho buone sensazioni. Non abbiamo niente da invidiare allo Young Boys. Loro hanno la fortuna di essere costanti. Se parliamo però di qualità, quest’anno siamo molto vicini. Se guardo il passato, offensivamente non abbiamo mai avuto così tanta scelta e tanta qualità. E non vedo altre squadre in Super League che siano al nostro livello. Io penso ancora da difensore. Un difensore che deve giocare contro il Lugano. Esce Bottani ed entra Amoura, esce Steffen ed entra Mahou, c’è Celar, c’è Aliseda che è un giocatore fuori categoria. L’YB è favorito, è in casa, deve vincere… secondo me questo è lo scenario ideale per noi. Poi la finale è una finale, tutto può accadere. A questo punto dobbiamo solo pensare a godercela. Chi è fuori e anche e soprattutto i ragazzi che scenderanno in campo: sono poche le partite in carriera che hanno questo sapore». 

Riuscirà a godersela anche Maric?
«Sì, sicuramente. Anche se stare fuori è un po’ più complicato perché nulla dipende da te. Quando sei uno dei protagonisti riesci a calarti pienamente nell’evento, a godertelo appunto. Quando sei fuori c’è invece uno stress incredibile. Mettiamola così: per il mio non essere più della partita mi ringrazieranno i muscoli ma in un’occasione del genere per il cervello sarà un disastro». 

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