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CANTONEBertoldi e il (fragile) mondo della memoria

21.05.19 - 06:01
Nelle librerie da giovedì 16 aprile “Come tanti piccoli ricordi” (tre60/TEA), il nuovo romanzo del giovane scrittore luganese Mattia Bertoldi
FOTO LUCA SANGIORGI
Mattia Bertoldi, classe 1986.
Mattia Bertoldi, classe 1986.
Bertoldi e il (fragile) mondo della memoria
Nelle librerie da giovedì 16 aprile “Come tanti piccoli ricordi” (tre60/TEA), il nuovo romanzo del giovane scrittore luganese Mattia Bertoldi

LUGANO - I ricordi, piccoli tasselli di un puzzle che, talvolta, è impossibile, o perlomeno difficile, incastonare l’uno nell’altro. Ma si possono limare, levigare, con l’aiuto di qualcuno.

Quel qualcuno è Manlio, un assistente per la memoria: si prende cura di chi ha una testa «che non funziona più tanto bene». Ai suoi assistiti racconta di Bianca, la donna che avrebbe voluto sposare. Manlio è abituato a confrontarsi con pazienti anziani, ma un giorno incontra Camilla, una donna di nemmeno quarant’anni non più in grado di ricordare. Lei è testarda e inizialmente rifiuta il suo aiuto, ma la malinconia che Manlio porta dentro di sé apre una breccia: lui le insegnerà come ricordare di nuovo, ma alla condizione che lei possa aiutarlo a dimenticare Bianca. Apparentemente un patto perfetto.

Bertoldi è l’artefice di una narrazione puntuale, meticolosa, costruita attraverso una peculiare messa a fuoco di impressioni ed emozioni forti, intense. Lo abbiamo incontrato.

Mattia, seppur affrontato in maniera differente, con questo nuovo romanzo torni a focalizzarti sul ricordo, sulla memoria: c’è una ragione particolare?

«La memoria è il mio principale strumento di lavoro, e anche di carattere devo dire che sono piuttosto pensieroso. Confrontarsi quotidianamente coi propri ricordi ti porta a domandarti quanto le esperienze e gli errori hanno plasmato il tuo percorso, o caratterizzato relazioni familiari e sentimentali. Possiamo sfuggire da tante cose, ma non da ciò che abbiamo nella testa. Focalizzarsi su questa dimensione, per me, significa confrontarsi con una fonte ampissima di temi».

Da dove nasce lo spunto del libro?

«Da una lettrice di nome Silvia, che dopo aver concluso il mio romanzo precedente mi ha telefonato e detto: “Mi è piaciuto molto il modo in cui hai trovato il lato positivo in situazioni di vita apparentemente complicate. Ti voglio mostrare ciò che faccio”. Così l'ho incontrata, e mi si è aperto un mondo. Silvia, di lavoro, fa l'assistente per la memoria e lavora quotidianamente con persone che fisicamente stanno bene, ma faticano a mettere in ordine i loro ricordi».

Il romanzo è ambientato a Lugano e dintorni: proprio in città troviamo un centro per chi soffre di patologie legate alla memoria: ti è capitato, per qualche motivo, di frequentarlo?

«Ho fatto diverse ricerche, informandomi anche sul centro di cui parli. L'esperienza pratica viene però da Silvia, che ho seguito per diverse ore conoscendo diversi suoi assistiti; forse loro non si ricordano di me, ma per me sono indimenticabili. E il modo con cui Silvia e i suoi colleghi interagiscono con queste persone - compilando nelle chat tutti i ricordi che i pazienti hanno condiviso con loro - porta importanti benefici. La volta successiva, infatti, sarà loro possibile evocarli di nuovo e riprendere il discorso».

Quanto c’è di autobiografico al suo interno?

«Come tanti, anche io ho vissuto il problema dell'assenza di memoria al cospetto di persone anziane: la mia nonna materna, ma anche la nonna di mia moglie. In quelle situazioni, più che chiedermi perché avessero dimenticato così tanto, mi incuriosivo di fronte ai piccoli scampoli di memoria sopravvissuti alla malattia. Sono domande che mi pongo io stesso: perché, per esempio, dei tempi delle scuole elementari mi ricordo certe frasi, certi gesti all'apparenza insignificanti e non cose ben più importanti?».

Il personaggio di Manlio si ispira a qualcuno in particolare oppure è l’insieme di più storie, di più caratteri, di più persone?

«Manlio è come il suo nome: un po' all'antica. Ha dei sani principi, combatte, anche nel romanzo, in nome di un ideale, ma ciò non lo rende immune dalle ferite. Per me rappresenta tutti coloro che dimostrano positività nella vita, ma rimangono comunque incastrati in uno stato in cui dimenticare si fa sempre più difficile. E così lo sguardo non è più rivolto verso l'orizzonte, ma verso il passato».

E il personaggio di Camilla? In prima battuta mi ha fatto pensare a “Still Alice”, film del 2014 diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore, nonché adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo (2007, iUniverse) di Lisa Genova…

«“Still Alice” è una delle tante storie a cui mi sono avvicinato per rendermi conto dello stile con cui si presentano le persone affette da problemi di memoria. Volevo raccontare una donna bloccata in una situazione del genere ma comunque sprezzante, indipendente e dalla risposta pronta. La sfida più affascinante del romanzo è stata scrivere interi capitoli attraverso il suo punto di vista, progredendo da frammenti di memoria composti da frasi brevi e nette a periodi più elaborati. I lettori percepiranno i suoi progressi anche così».

Manlio e Camilla arrivano a un patto. Come è possibile “sancire” un patto con qualcuno non più in grado di ricordare?

«Sono diversi i canali di comunicazione che si possono sviluppare con chi ha problemi di memoria. Sono persone che prestano molta attenzione alla puntualità, che vivono il “qui e ora” e basterebbe un minuto di ritardo per vederle disertare un appuntamento. Analogamente, sono capaci di ricordare dettagli all'apparenza insignificanti e incollarteli addosso per sempre. Interagire con loro significa essere onesti e presenti, attenti a ogni loro parola. Così facendo, e con pazienza, è possibile notare dei miglioramenti sensibili che possono trasformarsi in patti veri e propri».

Dimmi se sbaglio, ma la lettura di questo romanzo, dal mio punto di vista, potrebbe dare una mano a capire, a comprendere meglio, le malattie della memoria, inizialmente silenti, ma che a poco a poco evolvono in situazioni difficilmente gestibili… 

«Certo, ho voluto inserire anche questo punto di vista presentando l'interazione che Manlio ha con il signor Salvemini, un altro suo paziente. È un rapporto regolare, costruito su un particolare sistema di comunicazione e fatto di azioni ripetute. Come mi ha insegnato Marcella, una collega scrittrice che ha letto il manoscritto in anteprima, la difficoltà più grande legata all'interazione con un parente che ha problemi di memoria è quella di sviluppare un nuovo linguaggio. Non è mai facile, perché tenderemo sempre a confrontare la persona con quella che era prima della malattia. Ma è un cammino che va fatto».

Prima di concludere: hai pensato a una trasposizione cinematografica del romanzo? Potrebbe prestarsi molto bene alla settima arte, come il tuo lavoro precedente - “Le cose belle che vorrai ricordare” (2017, tre60) -, del resto…

«Quando costruisco un romanzo, presto molta attenzione all'immersione della lettrice o del lettore nella storia: punto a dettagli concreti, sensazioni vivide, una narrazione il più precisa possibile. Per questo penso che in molti vedano nei miei libri un possibile sviluppo cinematografico e, certo, sarebbe un onore. Ma anche vedere la propria opera tradotta, con la possibilità di raggiungere nuovi lettori, rappresenterebbe un grande piacere».

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