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INTERVISTAE Marlene disse: "No Dior, no Dietrich"

16.08.13 - 08:02
Moda e cinema: dal costume di scena, agli abiti che diventano icone. Un tuffo nella storia con la stilista Sabrina Rovati Khatir.
Foto Reza Khatir
E Marlene disse: "No Dior, no Dietrich"
Moda e cinema: dal costume di scena, agli abiti che diventano icone. Un tuffo nella storia con la stilista Sabrina Rovati Khatir.

LOCARNO - Sabrina Rovati Khatir, stilista, fashion designer, costumista, sa bene che la moda non finirà mai di vestire il cinema. Vive e lavora da anni a Locarno, dopo aver studiato e lavorato a Milano, una delle capitali internazionali della moda. Gli abiti che crea mettono in valore la femminilità. Spiccano per la cura dei dettagli, per i colori e soprattutto per l’elevatissima qualità dei tessuti. Il suo lavoro di stilista è una ricerca continua, che porta avanti con uno sguardo attento e costante non solo sulla moda, ma anche sull’arte, la cultura e la società.

Che caratteristiche deve avere un abito per il cinema e il tappeto rosso?
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Deve sicuramente e necessariamente avere un’impronta forte e quasi da «costume di scena». È sconcertante vedere come, nella grandissima maggioranza dei casi, gli abiti indossati nel 2000 siano una stanca ripetizione di modelli già presenti da decenni. Manca spesso una nota fortemente contemporanea, un taglio azzardato o un tessuto che parli di futuro, per esempio".

Un abito meraviglioso può trasformare un attore o un’attrice mediocre in una star?
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In passato sicuramente certi abiti hanno creato le star. Lana Turner col suo pullover che aderiva al corpo come una seconda pelle; Rita Hayworth, col mitico abito nero di satin; Marilyn con la vaporosa gonna bianca che le scopriva le gambe; Audrey Hepburn, tubino neroe grandi occhiali scuri… Tutte loro, fortemente identificate con un certo tipo di abito, fanno ormai parte del mito e nessuno si chiede più se dietro a quell’immagine forte si celasse anche del talento oppure no".

Quali sono le attrici che hanno incarnato in modo eloquente il connubio moda-cinema?
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D’acchito mi vengono in mente due nomi: Audrey Hepburn e Katharine Hepburn. Entrambe hanno saputo creare il proprio stile e grazie alla loro forte personalità lo hanno imposto come una sorta di continuità stilistica in ogni loro film. Audrey Hepburn strinse anche un importantissimo sodalizio tra il mondo del cinema e della moda con Hubert de Givenchy. Suo l'intramontabile tubino nero, menzionato prima. Ma anche i pantaloni Capri che lasciavano scoperta la caviglia, così come la camicia bianca da uomo, l'acconciatura corta, l’eleganza con cui portava le ballerine - definito “il modo più sexy di scendere dai tacchi” - parlano dell’autenticità di uno stile che le apparteneva in ogni dettaglio. Katharine Hepburn andò oltre, lavorando addirittura con i costumisti per realizzare gli abiti da indossare in scena, convinta che solo con abiti in cui si sentiva a suo agio, avrebbe potuto dare il meglio di sé. Guardandola, da “La costola di Adamo” a “Indovina chi viene a cena?”, per citare solo due titoli, si percepisce che quegli abiti facevano parte di lei, erano un’emanazione della sua personalità".

Qual è l'attrice contemporanea che lei apprezza per la sua eleganza?
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Nessuna è abbastanza coerentemente elegante da essere apprezzabile in tal senso".

Negli anni Venti del secolo scorso, spesso le attrici provvedevano da sole ai loro abiti, riccorendo alle sartorie teatrali. Nella storia del cinema, quando è iniziato questo legame strettissimo con la moda?
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Gli anni Trenta inaugurano una nuova era per la cinematografia, perché per la prima volta alle pellicole si aggiungono voci e suoni. Questo cambiamento crea però complicazioni tecniche: ci si accorge che il suono e il rumore prodotto dagli abiti e dagli accessori, distrae dalla storia del film. La necessità di ridimensionare i costumi eccessivi ed esagerati porta all'affermazione, in quel periodo, di una figura professionale specifica interamente dedita a mettere in risalto il corpo della diva; nasce in tal modo a Hollywood, nella seconda metà degli anni Venti, la figura del costumista. Gli abiti creati per certe attrici hanno una tale risonanza, che negli anni Venti e Trenta alcune sartorie statunitensi decidono di riprodurre fedelmente gli abiti dei film di successo, vendendoli in tutto il paese attraverso i grandi magazzini".

È dunque l’era incontrastata dei costumisti?
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Il cinema di quei tempi è nelle mani dei grandi costumisti che, meglio di uno stilista, sanno comprendere e soddisfare le necessità tecniche delle riprese cinematografiche. Lo dimostra ampiamente Adrian, “chief costume designer” della Metro Goldwyn Mayer fino al 1942. I suoi costumi sono stati determinanti per la costruzione dell’immagine di Greta Garbo, Jean Harlow e, soprattutto, Joan Crawford".

I grandi nomi della moda hanno dovuto insomma aspettare il loro turno…
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Solo sul set di “Sabrina” si verifica la prima significativa collaborazione di uno stilista con il mondo del cinema. Fino ad allora le collaborazioni tra cinema e grandi sarti si erano rivelate spesso fallimentari. Come per Chanel e Elena Schiaparelli, quando negli anni Trenta provarono a cimentarsi nel cinema hollywoodiano. Forse solo Christian Dior, qualche anno prima di Givenchy, è riuscito a collaborare con il mondo del cinema con un certo successo. Portano infatti la sua firma gli abiti indossati da Marlene Dietrich nel film di Hitchcock “Paura in palcoscenico”; scelta imposta però dalla stessa Dietrich, resa famosa con l'esclamazione: “No Dior, No Dietrich”.

A quando allora la svolta?
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Il cambiamento di tendenza significativo risale alla fine degli anni Sessanta, dopo il declino dei grandi studios e la scomparsa dei maestosi reparti per i costumi. Da allora, molto spesso il costumista, soprattutto nei film che hanno un'ambientazione contemporanea, ricorre ad abiti già confezionati, assumendo sempre più il ruolo di stylist, di mediatore tra la griffe di moda e il film. La figura dello stilista ha quindi acquistato sul set sempre più rilevanza: offre i suoi abiti alla produzione cinematografica con reciproco vantaggio: pubblicità per la griffe e costo ridotto dei costumi per la produzione. Giorgio Armani, per esempio, ha fornito le sue creazioni a una lunga serie di film, a partire dagli abiti indossati da Richard Gere in “American gigolo” a quelli indossati da Ving Rhames in “Pulp fiction” di Quentin Tarantino".

Le stelle del cinema sono icone di stile che abitano la nostra quotidianità. Per molte donne diventano modelli da imitare, costi quel che costi: dalla scarpa alla tonalità di smalto. Come vede questo fenomeno?
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Tutte le dive del passato e del presente non sono che la ripetizione infinita di un medesimo archetipo. Ogni donna vuole partecipare a questa messa in scena della femminilità e assomigliare - indipendentemente da ciò che essa è - al «dover essere» della donna, dettato dalle mode e dalle star  del momento. È penalizzante e terribile. Cercare di conformarsi a qualcosa che non ci appartiene, mettendo a tacere ciò che siamo, anzi peggio, non avendo alcuna coscienza di ciò che siamo, di ciò che ci piace e che ci sta bene, è il peggior tradimento che noi donne possiamo infliggere a noi stesse. Attraverso la chirurgia estetica poi, questo annichilimento della personalità non si ferma purtroppo solo al vestito o al colore dello smalto, ma entra nella nostra carne, nel tessuto vivo del viso e del corpo di noi donne".

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