Quattro anni fa si dimise da procuratrice per tentare la corsa al Governo. La deputata Natalia Ferrara parla della sua scelta e della (eccessiva) visibilità elettorale dei ministri uscenti
BELLINZONA - Lasciare il posto sicuro per tentare la corsa al Governo. Tutti lo fanno una volta eletti, in pochissimi si sono trovati nella situazione di dover (o voler) dimissionare per lanciarsi in campagna. Uno è stato ieri Frapolli, l’altra fu nell’estate 2014 la deputata Natalia Ferrara (PLR) che lasciò il carica di procuratrice pubblica. E dieci mesi dopo arrivò terza, dietro il consigliere di Stato Christian Vitta e Michele Bertini.
Si è mai pentita di quella scelta?
«Va precisato che io ho scelto di dimettermi dalla magistratura e questa fu una scelta. E poi di candidarmi al Governo, è quella fu la seconda. Se leghiamo le due cose, uno potrebbe pensare che mi sono pentita. Ma non è così e lo dimostra il fatto che anche oggi che potrei da avvocato occuparmi di contenzioso, faccio invece consulenza in particolare nell’ambito della piazza finanziaria. Proprio perché ritengo molto importante la separazione delle carriere».
Due decisioni ravvicinate ma distinte dunque...
«Sì, e anche se Elia Frapolli non ha bisogno dei miei consigli, mi auguro che la sua valutazione non sia avvenuta in prospettiva del cosa faccio dopo, ma di ciò che non voglio più fare. È estremamente diverso. Per questo non ho mai pensato a un congedo o alla possibilità di tornare in Procura. Certo, a quel momento avrei preferito venire eletta, ma non ho né rimpianti né risentimenti».
Anche lei non aveva un piano B, come oggi dichiara l’ormai ex direttore dell’Ente turistico?
«Fino al voto di aprile, anche se in molti non ci credevano, non avevo un piano B. Se fossi stata eletta in Governo avrei avuto un lavoro, e altrimenti me ne sarei creato uno. E in effetti ho scritto due libri di diritto, ho iniziato ad insegnare, ho assunto questo mandato sindacale molto importante. Tutte cose che in magistratura non avrei potuto fare. Cambiare è un’occasione per crescere. Trovo un po’ penalizzanti quelle carriere lineari, dove si resta in un settore per tutta la vita».
Cambiare è dunque sempre sano?
«A patto, e questa è una delle criticità, che deve trattarsi di una scelta personale e non indotta da pressioni. Pressioni che, mi sembra, ci siano state verso Frapolli e che personalmente ho trovato scorrette».
Per quale motivo?
«Perché andrebbe adottato un sistema come nei Grigioni, dove passano sei mesi dalle elezioni all’entrata in carica. In modo che chiunque abbia un lavoro, e mi sento di dire un lavoro vero, possa rispettare i termini di disdetta, organizzare il passaggio di consegne. In Ticino si parte invece dal presupposto, sbagliato, che uno il giorno prima non fa niente e il giorno dopo siede in Consiglio di Stato».
Lo stesso vale per i consiglieri di Stato esclusi…
«Certo, anche loro rischiano da un giorno all’altro di restare senza lavoro. Anche se penso soprattutto ai margini troppo stretti per il passaggio delle consegne e dei dossier dipartimentali. Ma c’è un altro aspetto critico».
Quale?
«Il discorso si focalizza troppo su ciò che non possono fare i candidati, soprattutto quelli che hanno delle chanche. Ma scusate, e i nostri consiglieri di Stato? Sono in carica e per tutto il loro mandato hanno più visibilità e poi nel momento in cui si ricandidano sono favoriti statisticamente. Perché nove volte su dieci l’uscente viene, nonostante tutto, confermato. A loro non si chiede mai se nei sei mesi precedenti il voto lavorino o facciano campagna. Oltretutto con un apparato di sostegno che gli altri non hanno».