Obbligare per contratto il lavoratore part-time a essere disponibile al 100%: più colpite le donne e le professioni "femminili"
LUGANO - Meno lavoro, meno soldi: da un giorno con l'altro, e a prescindere da desideri o bisogni personali, il tempo pieno si trasforma in parziale. Un fenomeno in ascesa in Svizzera come in Ticino, sfruttato dalle imprese per abbattere i costi.
Eppure, l'allarme non è neanche la tendenza a obbligare la gente ad accontentarsi: è piuttosto l'abuso che ha cominciato a trascinarsi dietro. La pretesa di una disponibilità a tempo pieno, comunque, a titolo gratuito. «Le aziende offrono il part-time ma chiedono che il collaboratore sia reperibile al cento per cento. A quel punto, mi chiedo, che parziale è? È un falso».
Economista e ricercatore alla Supsi, esperto in lavoro sociale, Christian Marazzi si è imbattuto in questa «forma di lavoro gratuito» nell'ambito di una ricerca che, attraverso le testimonianze di lavoratori sempre più atipici e meno riconosciuti, voleva documentare l'allargarsi in Ticino del fenomeno del lavoro gratuito, appunto.
«Ecco quello che abbiamo riscontrato. Anzitutto, un aumento dei tempi parziali, che hanno raggiunto il 34% in Ticino, il 38% in Svizzera. In secondo luogo, l'aumento dei tempi parziali brevi, dove il tasso di occupazione è inferiore al 50%. In un certo senso ci stiamo avviando verso una economia dei lavoretti, verso la Gig economy. C'è poi, confermo, la tendenza a trasformare il tempo pieno in un tempo parziale, con una riduzione del salario. Ma l'aspetto cruciale, a nostro avviso, è un altro».
Quale?
«Questa riduzione viene spesso accompagnata dalla clausola della disponibilità nel tempo di non lavoro. Si esige la disponibilità ad andare a lavorare fuori dalla fascia oraria contrattualizzata. È una forma non riconosciuta di lavoro gratuito».
Anche il tempo parziale in un certo senso lo è: non di rado serve a fare lo stesso lavoro in meno tempo. Non trova?
«Anche questa è una declinazione della gratuità. Si riduce il tempo di lavoro pagato, ma il lavoro richiesto resta il medesimo, dunque in un certo senso anche il tasso di occupazione. Ma il fenomeno nuovo che abbiamo registrato è una tendenza a lavorare fuori dal tempo contrattualizzato. Si tratta di falsi tempi parziali, che richiedono la disponibilità della persona per l'intera giornata. Su questo occorre riflettere».
Anche in Ticino?
«Soprattutto in Ticino. È qui che si sono concentrati i nostri studi».
È legale?
«Non dovrebbe».
Perché accettarlo?
«Perché a volte non c'è altra scelta. Le persone che accettano sono in aumento e sono soprattutto donne. C'è anche chi chiede di lavorare a tempo parziale, per esigenze proprie. Ma in questo modo non si è comunque più liberi».
Perché siamo arrivati a questo punto?
«Perché comporta una riduzione dei costi del lavoro. Si paga meno, ma si dispone della forza lavoro, "mobilizzabile" alla bisogna».
Secondo le aziende, proporre di lavorare meno è invece un'alternativa a non assumere o a licenziare. Ipotesi plausibile?
«Potrebbe essere, in qualche caso. Ma il punto è che non si può pretendere che una persona accetti di lavorare meno, con la clausola di essere disponibile al 100%. Non è ammissibile».
C'è un'azienda che ha addirittura ridotto il tempo pieno di un "vecchio" dipendente adducendo come motivazione il rischio burn out.
«Fantastico. Che i datori di lavoro si preoccupino in questo modo della salute degli altri è una novità assoluta. Non mi si venga a dire che lo si fa a tal fine. Il burn out si ha anche quando si genera uno stato di sofferenza nel dipendente per via di un mancato riconoscimento del lavoro svolto. Le domande che faremmo bene a porci sono tante. Tutto questo è legittimo? Qual è diventato, oggi, il senso del tempo parziale? È solo pagare parzialmente la forza lavoro? Appropriandosi del tempo e della vita delle persone?».
Marazzi, dove stiamo andando?
«Anzitutto, non è un buon modo per motivare la gente. Non si offrono condizioni che generano benessere, quindi ci sono in primis ricadute sulla salute. Poi c'è un effetto di impoverimento sociale, a causa della riduzione del salario».
Rischi concreti?
«La conseguenza più macroscopica è una società rancorosa».
È a rischio lo stato sociale?
«È un altro problema, piuttosto serio in prospettiva. Con questa configurazione del lavoro aumenta la difficoltà a finanziare lo stato sociale. Si rischia di accumulare lacune contributive. Davanti alla trasformazione del mondo del lavoro, lo stato sociale si scopre inadeguato. Non ci sono più i presupposti su cui lo si era costruito. Va ripensato, sempre che lo si voglia salvaguardare: il che non è così evidente».