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LUGANOTra killer, boss e televisione. Una chiacchierata con Michele Santoro

17.09.21 - 06:00
Il famoso giornalista italiano sarà ospite questa sera all'Endorfine Festival di Lugano. Lo abbiamo intervistato.
Imago
Tra killer, boss e televisione. Una chiacchierata con Michele Santoro
Il famoso giornalista italiano sarà ospite questa sera all'Endorfine Festival di Lugano. Lo abbiamo intervistato.

LUGANO - Di vite blindate Michele Santoro ne ha conosciute e raccontate, la sua però di fatto non lo è mai stata. Neppure in quegli anni, i primissimi Novanta, in cui le minacce, in una triste consuetudine, erano spesso il prologo del sangue. «Non ho mai avuto una scorta, pur essendo uno dei principali obiettivi della mafia fin dal periodo delle stragi», ci racconta infatti il famoso giornalista italiano, che questa sera aprirà l’edizione 2021 dell'Endorfine Festival al Boschetto Ciani di Lugano.

Perché Michele Santoro non ha mai avuto una scorta?
«L’unica volta che mi è stata proposta l’ho rifiutata. Diciamo che non mi piacciono le vite blindate. Ovviamente quando è necessaria le autorità di polizia devono valutarla. Quando intravedono dei pericoli reali. Ma in Italia c’è anche un abuso delle scorte, che diventano quasi una forma di esibizione del potere. Quindi se tu hai la scorta diventi quasi un’istituzione intoccabile. Ed essendo stato io sempre un giornalista controcorrente, non l’ho mai voluta. Ma nemmeno le autorità hanno mai voluto darmela».

A parte quell’unica volta in cui l’ha rifiutata…
«Quella mi fu offerta dopo una circostanza occasionale. In quel caso subii una rapina a mano armata che fece molto clamore. Finì su tutti i giornali, sui telegiornali. E a quel punto il capo della polizia dell’epoca mi chiamo e mi disse: “Guarda, tu assolutamente devi avere la scorta, perché se ti capita qualcosa noi ci facciamo una figuraccia”. E io risposi in breve: “Ma che me ne importa della figuraccia che fate voi. Si tratta della mia vita e quindi decido io cosa farne”. Tanto era evidente che la mafia in quel periodo, quando decideva di ammazzare qualcuno, non è che si faceva intimorire dalle scorte, come si è poi ben visto».

Parlando di mafia che uccide, parliamo di Maurizio Avola. Nel suo ultimo libro - “Nient’altro che la verità” - lei racconta di lui, ma anche di sé stesso. È stato scomodo vestire i panni di “confidente” di un killer di mafia?
«L’approccio è stato difficile. Io mi stavo occupando al tempo di un’inchiesta su Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino conosciuto della mafia, che mi interessava perché la sua sparizione, secondo me, potrebbe racchiudere più di una risposta all’interrogativo di come si sia trasformata Cosa nostra in quella che è oggi. E così sono arrivato a conoscere Avola, che testimoniava in un processo a Firenze sulle stragi in cui raccontava di aver partecipato all’uccisione del magistrato Antonino Scopelliti insieme a Messina Denaro. È una persona che ha ammesso almeno ottanta omicidi. E inizialmente avevo anche una certa diffidenza. Perché in fondo, mi dicevo, cosa mi può dire di importante un killer come lui? Perché le domande che avevo in testa riguardavano quello che è Cosa nostra oggi. Poi però c’è un altro elemento: Avola ha partecipato anche all’uccisione di Pippo Fava. Parliamo di un altro giornalista come me. Quindi, per dire, avrebbe tranquillamente potuto partecipare alla mia uccisione o di miei colleghi. Quindi c’era anche questo sentimento di distanza e di repulsione immediata. Quello che io chiamo “l’odore del sangue”, che sentivo avvicinandomi a lui. Però una volta superata questa sensazione mi sono trovato di fronte a un personaggio sempre più sorprendente».

Sorprendente in che senso?
«È un personaggio dotato di una logica ferrea. È vero che era un esecutore di piani che probabilmente non erano, se non nella fase esecutiva, progettati da lui. Ma era un esecutore molto attento nel cogliere i particolari. Come gli erano stati dati questi ordini, in quale modo. E quindi, in primo luogo, utilissimo nel ricostruire l’esatto funzionamento dell’organizzazione. E in secondo luogo, quando superato il senso di repulsione inizi a guardare le cose con gli occhi di un mafioso ecco che la storia ti appare anche da un altro punto di vista. E riesci a leggere da un’altra prospettiva, ovvero quella di Cosa nostra».

Alcune delle parole di Avola però hanno alzato un polverone. E così lui, lei e il libro siete finiti al centro di un inedito fuoco incrociato, tra mafia e antimafia...
«Sì. Mafia, antimafia, destra, sinistra. Non si capiva più nulla. L’antimafia cosiddetta militante si è ribellata anche ad alcune affermazioni che faccio nel libro. Che io arrivi ad affermare che Berlusconi non può aver dato ordini a Cosa nostra, proprio io che sono stato un avversario famoso di Berlusconi e delle sue politiche dell’informazione, è stata per loro un’affermazione scandalosa. Che però sono molto viziati dall’ideologia e vedono le cose come, secondo me, non sono andate. Diciamo che i casi sono due: o Cosa nostra è stata la grande organizzazione che è stata, e che probabilmente è ancora in forme diverse, oppure questa diventa quasi una sorta di appendice dei servizi segreti deviati in Italia. E questa secondo me è una versione ridicola, perché Cosa nostra non è quello. È stata una grande organizzazione e Riina non è un personaggio minore della storia o un killer da strapazzo. Né uno a cui un poliziotto o un carabiniere, per quanto deviato, potesse dare degli ordini. L’altra affermazione “scandalosa” è stata poi quella che fa Avola sul fatto che non c’erano esponenti dei servizi segreti nel momento in cui si portava a compimento la strage di Via D’Amelio. Però Avola non ha mai detto che i servizi segreti non hanno avuto ruoli nella strage».

Che spiegazione si è dato per queste reazioni?
«In Italia queste istituzioni, chiamiamole “emergenziali”, tendono a trasformarsi in organismi di potere e a riprodursi in eterno. E questa è la situazione che aveva denunciato Sciascia. Devo dire che nell’immediatezza dei fatti, che riguardavano Falcone e Borsellino, Sciascia poteva aver torto perché eravamo veramente nel pieno di una guerra. Ma a distanza di tanti anni Sciascia aveva ragione nel dire che i tribunali dovevano poi tornare a funzionare normalmente. Cosa che in Italia ancora oggi non avviene. E così abbiamo questi magistrati che sono più magistrati degli altri».

Tornando alla figura di Avola, che rapporto è nato con questa persona?
«Devo dire che avrei approfondito ulteriormente questa conoscenza, ma a un certo punto mi è scattato un elemento di paura. Non per me ma per lui, paradossalmente. Perché queste campagna di delegittimazione così profonde sono pericolose. Ed è già successo che altri venissero ammazzati dopo essere stati definiti pazzi o mitomani. Quindi bisogna stare molto attenti. E poi c’è la questione del segreto istruttorio, perché l’inchiesta su ciò che lui ha detto è ancora aperta. Quindi l’avvocato, Avola e io stesso siamo praticamente diffidati e dobbiamo stare attenti a non commettere errori. E devo dire che questo scrupolo con lui me lo pongo. Altrimenti sarei andato più avanti nella conoscenza e nel percorso».

E lui invece che percorso sta affrontando?
«Lui è un personaggio che sembra completamente chiuso rispetto a un’ipotesi di redenzione. Io ho conosciuto molto bene Tommaso Buscetta. E Buscetta era un uomo convinto di essere ormai passato dalla parte dello Stato. Di essere una pedina ormai importante in quella lotta che lo Stato conduceva contro la mafia. Invece Avola non ha questo tipo di visione di sé stesso. Si sente in una terra di nessuno, che non appartiene né alla mafia né allo Stato, in cui lui cerca una strada per ridefinire una propria identità. Non dice sono diventato un testimone né tantomeno un pentito, ma perché lui dice di non riuscire a perdonarsi per ciò che ha fatto. E io so che lui sta combattendo per trovare questa sua nuova strada».

Prima ha fatto anche il nome di Matteo Messina Denaro. Che viene considerato l’ultimo tassello nell’oscuro puzzle delle stragi. Quello che, a detta di molti, dovrebbe consentire di fare finalmente luce. Quasi dando per scontato che il giorno in cui dovessero catturarlo lui si metterà a collaborare…
«Se ci si fa caso, fra tutti i collaboratori di giustizia - con l’eccezione di Buscetta, che avrebbe avuto la statura per essere un capo ma che, per note vicissitudini, non è mai stato un capo - non ce n’è nessuno che è stato un padrino. I padrini non si sono mai pentiti. Non esiste un Santapaola che si pente, un Graviano che si pente, un Riina che si pente o un Provenzano che si pente. Non è mai avvenuta una cosa del genere. Alcuni di questi sono in carcere all’ergastolo ostativo. I Graviano hanno sessant’anni, avrebbero tutti i motivi per pentirsi, collaborare e uscire dal carcere. Perché non lo fanno? Perché secondo me l’organizzazione esiste ancora all’esterno e quindi questi, che condividono i segreti strategici più grandi della mafia, non si pentono».

Santoro, prima di concludere non posso però non farle almeno una domanda sulla televisione. Ne sente la nostalgia e sarebbe pronto a tornarci?
(ride) «Io sarei pronto a tornarci, ma non so se la televisione è pronta ad accogliermi. In questo momento c’è una coltre conformistica che copre la televisione in Italia. I programmi sono tutti uguali. Non è che i miei colleghi manchino di qualità. Ho massima stima di quelli che sono rimasti e sono ottimi professionisti. E che forse sono anche più bravi di me. Però sanno benissimo che in questo momento c’è un confine che non si può superare e loro non lo superano. Dopo la caduta di Berlusconi pensavamo che si sarebbe aperta una fase nuova anche per i mezzi di comunicazione e invece c’è stato solo un continuo declino del sistema dei media. E coinvolge tutti. La Rai, Mediaset, ora anche Sky. Questi hanno iniziato a subire il colpo già con l’ingresso di Netflix sul mercato. Mi sembra che, sempre di più, l’Italia si possa configurare come una piccola provincia in cui le multinazionali vengono a fare il bello e il cattivo tempo, trattandoci come uno di quei Paesi non troppo evoluti. Per esempio, in Inghilterra tu puoi realizzare un prodotto come The Crown dove puoi mettere alla berlina e criticare i reali inglesi. In Italia invece no. È un atteggiamento. Non è che Netflix o Amazon si possono preoccupare di essere fermati dalla censura. No, è un modo di adattarsi a una situazione che in Italia c’è. È il conformismo di cui dicevo prima. In Francia hanno fatto un documentario su Strauss-Kahn e le sue avventure “sentimentali”. Ma noi dovremo probabilmente aspettare quaranta o cinquanta anni per vedere una serie sul “bunga bunga” firmata da Netflix».

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