Come un cane che si morde la coda. Quanto è dura uscire dal tunnel per chi è senza lavoro da tempo? Il caso della 41enne Sara Scuncio è emblematico. Il Cantone: «Fatti miglioramenti»
BELLINZONA – «Io mi do da fare per rialzare la testa. Ogni volta che trovo un lavoretto, però, devo dichiarare quanto guadagno, e l’assistenza mi decurta la “busta paga”». Sara Scuncio, 41 anni, di Bellinzona è una delle tante persone ticinesi che cercano di uscire dall’assistenza. Invano. I problemi, per lei, mamma di un ragazzo di 12 anni, sono iniziati dopo la separazione dall’ex compagno nel 2012. «Non sono mai riuscita a trovare un lavoro a tempo pieno, o a una percentuale tale da non avere più bisogno di aiuti statali».
Un inferno senza ritorno – L’assistenza è un inferno da cui, una volta entrati, non si esce più? Il numero delle persone in assistenza in Ticino è aumentato in modo marcato tra il 2011 e il 2015, e in maniera più contenuta negli anni successivi. La crescita, insomma, ha subito un rallentamento. Al momento sono poco più di 8.000 le persone che ricevono un aiuto.
Il minimo vitale – A sancire a quanto debba ammontare il sussidio d’assistenza è il cosiddetto minimo vitale. Oggi, per la persona singola, equivale a 995 franchi mensili. A questa cifra vanno aggiunti affitto e cassa malati. «Tenendo conto anche degli assegni che ricevo per mio figlio – dice Sara – , vivo con poche migliaia di franchi al mese». La 41enne parla di una cifra che si aggira attorno ai 2.300 franchi.
L’esperienza che non conta più – Eppure Sara ha esperienza nel ramo amministrativo, è una persona che nella vita si è sempre adattata, ha fatto anche la barista e la donna delle pulizie. «Il fatto è che se guadagno 700 franchi in un mese facendo qualche ora di pulizie, poi me li detraggono dal sussidio che ricevo. Perché il budget complessivo fissato per me non deve andare oltre una determinata soglia mensile. In questo modo, però, non riesco mai a ripartire veramente. O uno ha la fortuna di trovare un posto di lavoro vero e abbandonare l’assistenza, oppure ci resta invischiato».
Circa il 20% degli assistiti è sulla stessa barca – «L’assistenza – spiega Cristina Oberholzer, responsabile della Sezione del sostegno sociale – ha lo scopo di coprire sempre il fabbisogno minimo della persona. Quello della signora in questione non è un caso isolato. Circa il 20% dei nuclei famigliari che necessitano di prestazioni di sostegno sociale infatti lavorano: a tempo pieno, tempo parziale o anche su chiamata».
Problema (quasi) inevitabile – Storie come quella di Sara sono metaforicamente rappresentabili con la figura del cane che si morde la coda. «Il problema non è del tutto evitabile – ammette Oberholzer –. E va ricondotto alla situazione difficile del mercato del lavoro. Sono stati, tuttavia, attuati correttivi per migliorare le cose».
Il correttivo – Infatti, per cercare di agevolare e incentivare un rientro lavorativo di queste persone, è stata introdotta a partire dal 2016 una franchigia sul reddito. «Non viene computata per ogni membro dell’unità di riferimento una quota pari al 20% del reddito da lavoro (franchigia). Questo fino ad un massimo di 350 franchi al mese. Non viene quindi scalato l’intero ammontare guadagnato, ma solo la quota eccedente la franchigia».
C’è anche chi riesce a uscirne – Un contentino? Una falsa soluzione? Se ne può discutere. Secondo Oberholzer, tuttavia, oggi l’assistenza sociale è diventata un punto di passaggio e non più un punto di arrivo. «Questa forte dinamicità è confermata anche dalle cifre. Nel 2017 sono state poco più di 1700 le nuove domande accettate, e poco meno di 1800 le domande nuovamente chiuse».
Accompagnati verso il reinserimento – La formazione continua e l’acquisizione delle competenze di base sono, e restano, importanti elementi per potere rientrare nel mercato del lavoro. «Oggi – conclude Oberholzer – le persone che beneficiano di prestazioni di sostegno sociale e sono abili al lavoro seguono un percorso di reinserimento professionale con il supporto degli uffici regionali di collocamento».