A conclusione di “Lugano città aperta”, l’Usi ha ospitato stamattina il direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau Piotr Cwyiński
LUGANO - «Il nostro non è un museo storico, ma fenomenologico. Non vogliamo dare risposte, quello che dobbiamo garantire è l’inquietudine morale sui tempi contemporanei». Sono alcune delle parole usate da Piotr M.A. Cywiński, Direttore dell’Auschwitz-Birkenau State Museum, che stamattina ha tenuto una conferenza all’Usi.
Il tristemente noto campo di concentramento e di sterminio degli ebrei provenienti da tutta Europa oggi accoglie milioni di visitatori ogni anno. L’intento del museo non è solo quello di mostrar loro ciò che successe durante la II Guerra mondiale - «chi viene da noi conosce già la storia» - ma di educarli. Grazie anche a 320 guide, in 20 lingue diverse: «Non credo esista un altro museo al mondo con questi numeri».
Ad Auschwitz non si rivive dunque solo la storia, ma si vive l’autenticità del posto, «un elemento centrale da proteggere». Autenticità e educazione, per non dimenticare. Per evitare tragedie come il genocidio che ha avuto luogo in Birmania l’anno scorso, «nel silenzio più completo del mondo». «Se non si fece nulla 80 anni fa, in tempo di guerra, come è possibile che non si faccia nulla ora in tempo di pace?» ha chiesto retoricamente ai presenti.
Per chi visita il museo - ha spiegato ancora Cywiński - si tratta di un rito di passaggio: «La gente entra chiacchierando e sorridendo ed esce in silenzio, spesso piangendo. E quando succede abbiamo raggiunto l’obiettivo».
Tradizione umanitaria ticinese - Ma se il piattoforte della mattinata era la conferenza del direttore del Museo di Auschwitz-Birkenau, c’è stata anche l’occasione per fare un bilancio di “Lugano città aperta”, una serie di eventi organizzati negli ultimi dodici mesi «per valorizzare la tradizione umanitaria di Lugano e della Svizzera italiana verso chi ha subito l’oppressione politica, la persecuzione razziale e religiosa e la negazione della libertà».
Sembra passata una vita da quando - era gennaio 2009 - il Garni S. Carlo di via Nassa veniva sgomberato dai profughi, ospiti da un paio di mesi della struttura. Donne e bambini dovettero lasciare l’hotel a seguito di quello che venne definito «un ultimatum» o «un diktat» del Municipio.
«Lugano oggi è una città aperta» - Esattamente dieci anni dopo «Lugano è una città aperta. Non a parole, con i fatti», ha detto con un certo orgoglio Marco Borradori. «Quando mi hanno proposto l’idea di questi appuntamenti mai avrei pensato che si sarebbe aperto davanti a me un mondo che non conoscevo e che mi ha arricchito», ha aggiunto il sindaco di Lugano parlando degli atti di altruismo compiuti da persone comuni - i Giusti, omaggiati con un giardino inserito nel Parco Ciani - «che non hanno avuto timore nel dare una risposta al male che vedevano».
L’importanza della memoria - Fra le varie autorità presenti, è intervenuto anche il direttore del Dipartimento delle Istituzioni Norman Gobbi, il quale ha posto l’accento sull’importanza della memoria: «Ricordare è faticoso, ma è utile perché ci mette di fronte al nostro passato e ci aiuta a comprendere il presente e a responsabilizzarci per il futuro». I Professori Stefano Prandi e Giacomo Jori (USI) e il direttore dell’Archivio storico della Città Pietro Montorfani hanno invece presentato gli Atti di “Lugano città aperta”, che ripercorrono il progetto arricchiti dai contributi dei Giusti luganesi: Francesco Alberti, Carlo Sommaruga, Anna Maria Valagussa e Guido Rivoir.