A Napoli sette coppie rifiutano l’adozione di una bimba con la trisomia 21. La notizia fa il giro del mondo. Ecco la storia di Monica Induni-Pianezzi, mamma coraggio, autrice di un libro sul tema
COLLINA D'ORO – A Napoli sette coppie rifiutano l’adozione di una bimba down. Solo un gay single accetta. Lo scorso novembre la notizia aveva fatto il giro del mondo. Intanto, a Montagnola c’è una mamma coraggiosa che abbatte ogni tabù. Monica Induni-Pianezzi ha un bimbo di quattro anni, Xavier, con un cromosoma in più nelle cellule. Di recente Monica ha lanciato “Daniel, oltre la sindrome di Down” (Fontana Edizioni), un libro che spiega ai ragazzini cosa significhi avere la trisomia 21.
Monica, partiamo dal momento in cui le hanno detto che suo figlio era malato…
«Alt. Fermiamoci subito. Basta stereotipi. Ci tengo molto all’uso corretto dei termini. Una persona con sindrome di Down non è malata. Ha semplicemente la caratteristica di avere un cromosoma in più nelle cellule».
Non è un po’ troppo politicamente corretta come definizione?
«No. Un linguaggio adeguato favorisce l’inclusione delle persone. Espressioni come “affetto da…” o “soffre di…” veicolano già un giudizio. La trisomia 21 è una condizione genetica permanente. Poi, è vero, la sindrome può causare patologie mediche, così come una disabilità cognitiva».
Bene. Ripartiamo. Cosa ha provato quando le hanno detto che suo figlio aveva la trisomia 21?
«L’ho saputo alla nascita. Lo ammetto: in quel momento ci è sembrato di dovere cancellare tutti i nostri sogni. Ma è anche vero che sia io, sia mio marito, eravamo molto ignoranti in materia».
E poi?
«E poi è accaduto che a Xavier è stato diagnosticato un problema cardiaco. La sindrome di Down, dunque, è passata in secondo piano».
Cosa pensa dei fatti di Napoli?
«Dimostrano quanta ignoranza ci sia ancora sul tema».
Nel 2015 lei ha contribuito a fondare l’associazione Avventuno. Perché questo nome?
«È la fusione tra i termini “avvenire”, “avventura” e il numero 21, riferito alla trisomia 21. Ci occupiamo anche di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza dell’inclusione delle persone con questa condizione nella società. Il libro che ho scritto mira proprio a questo».
I protagonisti sono due: Daniel, un ragazzino disabile, e Tommaso, un suo compagno “normodotato”…
«Tommaso si ritrova Daniel in classe. Inizialmente si chiede perché parla in quel modo, perché ha dei tratti un po' diversi, perché sembra strano. Lo scopre a poco a poco. E si arricchisce umanamente».
Suo figlio Xavier frequenta l’asilo “normale”. Come va?
«Bene. Corre, gioca, impara molte cose e ha tanti amici. È un bimbo felice».
Potrà seguire un percorso scolastico regolare?
«Lo spero. Io credo molto nell’inclusione scolastica. E non penso che il compito della scuola sia quello di fare imparare l’italiano e la matematica a tutti nello stesso modo. Non per forza, insomma, quel divario cognitivo deve essere colmato. La scuola è un luogo in cui fare esperienze di vita. E anche gli altri bambini possono crescere molto grazie alla presenza di una persona disabile come compagno. Si sta già facendo tanto, comunque. In passato le persone con disabilità finivano quasi tutte negli istituti».
La gente usa molto la parola “mongoloide” come insulto. Le dà fastidio?
«Credo sia un termine che non debba essere usato in nessun contesto. Men che meno come insulto. Ma non me la prendo, mi rendo conto che molti lo usano in modo inconsapevole. Non lo fanno con l’intenzione di offendere le persone con la sindrome di Down. D’altra parte, storicamente, anche la parola “idiota” deriva da un termine medico».
Lei, dopo Xavier, ha avuto un’altra figlia. Ci vuole coraggio…
«La sindrome di Down colpisce un bambino su mille circa. È la causa di disabilità cognitiva più comune. Spesso in maniera casuale. Non la temevamo più, comunque. Io e mio marito eravamo molto più consapevoli. E tranquilli».
Il vostro percorso non sarà stato, comunque, tutto rose e fiori…
«Assolutamente. Anzi. Però abbiamo sempre cercato di vedere il lato positivo di quanto ci era successo. E, vi assicuro, che di belle emozioni Xavier ce ne regala tante».
Non è preoccupata per il suo futuro?
«Se è per questo sono preoccupata anche per il futuro della mia altra bimba. Avere un figlio oggi è una grande responsabilità. Con o senza sindrome di Down. In questi anni abbiamo scoperto che quei sogni, che pensavamo di dovere cancellare di fronte alla diagnosi, hanno tutto il diritto di esserci e di essere coltivati. Ci impegneremo per realizzare la società accogliente in cui crediamo».