Dal frate birichino al giovane sacerdote “trasgressore” spedito in un monastero. Le fragilità della Diocesi ticinese sotto la lente del teologo Alberto Bondolfi
LUGANO – C’è il caso del frate birichino, con una vita sessuale intensa, anche con uomini sposati. C’è il sacerdote che aspetta la pensione per gettare la maschera e andare a convivere con un’altra persona. Ma c’è anche il giovane prete che, infatuatosi di un uomo, dilapida diverse migliaia di franchi e finisce in un vicolo cieco. La Curia ora lo manda per alcuni giorni a settimana in un monastero, a riflettere. Una società sempre più erotizzata mette a rischio la credibilità dei religiosi cattolici. «Soprattutto in Ticino – ammette il teologo Alberto Bondolfi, professore emerito di etica all’Università di Ginevra –, dove sembrano mancare le misure di accompagnamento necessarie per chi decide di abbandonare la professione di sacerdote. In altre regioni della Svizzera, le Diocesi sono più pro attive».
La sensazione è che il prete, oggi, sia una persona sempre più sola nel gestire le proprie debolezze sessuali…
Intendiamoci, non stiamo parlando di pedofilia. Dunque, non si tratta di comportamenti delittuosi. Siamo tutti esseri umani. È evidente che siamo di fronte a situazioni di solitudine, così come è evidente che oggi siamo bombardati da messaggi ambigui, a sfondo sessuale. Tutti rischiano di più. Non solo i preti.
Mandare un giovane sacerdote, scivolato sulle proprie debolezze, a “disintossicarsi” in un monastero è una scelta condivisibile?
È giusto che in situazioni del genere un prete abbia la possibilità di riflettere su sé stesso e su cosa fare della propria vita. Ma ciò non basta.
Non sarebbe meglio, invece, che la Curia affrontasse a viso aperto il problema personale di questi sacerdoti? Insomma, nessuno è obbligato a fare il prete…
Prima di tutto va specificato che in Ticino la Curia non è il datore di lavoro diretto di un prete. Il datore di lavoro è la parrocchia. E poi una cosa non esclude l’altra. Forse, però, manca ancora un luogo in cui chi si trova in determinate difficoltà possa confidarsi apertamente.
Certe situazioni si trascinano da anni. Perché uno preferisce fare la doppia vita, rischiando lo scandalo, piuttosto che cambiare strada?
In Ticino chi lascia il ministero sacerdotale fatica a trovare alternative professionali. È un dato di fatto. Non è colpa del vescovo. È la Diocesi che è strutturata così. In Romandia e in Svizzera tedesca è più facile smettere. Diverse Diocesi “riciclano” i sacerdoti che desiderano continuare ad operare in ambito ecclesiale come insegnanti, come giornalisti. Li aiutano ad avere una seconda possibilità.
Perché in Ticino questo non avviene?
La struttura giuridica della Diocesi ticinese è più fragile. La Diocesi ticinese non ha mezzi finanziari propri, anche a causa della scarsa chiarezza sulla tassa ecclesiastica. E quindi non ha tanti margini di manovra.
In realtà la Diocesi ticinese ha tanti dipendenti e tanti immobili…
D’accordo. Ma quelli sono beni della Diocesi. Il patrimonio esistente è già impegnato per determinate questioni. Lo si è capito anche quando il vescovo ha deciso di non ricorrere ai beni della Diocesi per salvare il morente Giornale del Popolo.
Qual è dunque il rischio con cui si trovano confrontati i sacerdoti “trasgressori”?
Quello dell’isolamento sociale. Pensate a un prete, che fino a 45 anni è una persona pubblica, magari amata da tutti… Un sacerdote ticinese sa che, se smette, sarà difficile ricominciare da zero.
L’uomo della strada, ingenuamente, direbbe che è giunta l’ora di rimettere in discussione il voto di castità dei preti cattolici…
Sono convinto che prima o poi si debba dare la possibilità di esercitare il ministero sacerdotale anche alle persone sposate. Togliere il voto di castità, invece, ci pone chiaramente di fronte a un problema di credibilità della scelta fatta. Ci sono persone che, finora, hanno fatto questa scelta. Come si giustificherebbe, ai loro occhi, un cambio di rotta? Va fatta una riflessione a 360 gradi.