Giornata internazionale contro il razzismo. Marco Mona, consulente della Commissione cantonale integrazione, ci dice cosa pensa della frase «È stato un errore assumere un italiano»
LUGANO - Gli svizzeri sono razzisti? Quanto lo siamo in Ticino? In che modo si manifesta? Sono solo alcune delle domande a cui si cercherà di dare risposta martedì 21 a partire dalle 19:00 nella serata organizzata dalla sezione svizzera di Amnesty International a Lugano presso lo Spazio 1929. Si celebra oggi la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, a cui il Ticino aderisce all’insegna dello slogan “La diversità, un valore svizzero?”.
Il tema sarà trattato dall’avvocato Marco Mona, consulente della Commissione cantonale per l’integrazione degli stranieri e membro fino al 2009 della Commissione federale contro il razzismo. Ed è proprio con lui che abbiamo parlato di un problema attuale più che mai, anche in considerazione dei fatti di cronaca che toccano il Cantone con lo scandalo dei permessi falsi.
Perché istituire una giornata contro il razzismo?
«Non c’è società che si salva dal morbo del razzismo, c’è una corrente xenofoba che le accompagna tutte. Ovunque ritroviamo espressioni di razzismo, dai social network ai discorsi politici. La Commissione federale contro il razzismo ha raccolto più di 700 casi in 20 anni. Sono circa 35 all’anno, che sembrano pochi, ma sono 35 di troppo».
Cos’è il razzismo alle nostre latitudini?
«Non c’è distinguo tra latitudini. Il razzismo è una riduzione del valore di ciò che è differente da me. Che si manifesta attraverso esternazioni verbali dove viene sminuita l’altra persona. Oppure con aggettivi come “porco straniero” o “straniero di merda”».
Come si può educare la gente a vedere la diversità come un valore e non come una barriera?
«È un’operazione molto lunga. Una parte di quello che io chiamo “creare una cultura anti-discriminitaria” è già in atto, ma bisogna capire che fa parte della dignità della persona essere accettata così com’è. Bisogna creare delle occasioni in cui la gente pensi “Questa persona nella sua diversità è come me”. Bisogna togliere la paura del diverso, che indubbiamente c’è, e insegnare che il diverso così diverso poi non è. Nell’educare abbiamo però un piccolo problema: dovremmo prendere esempio da chi parla al pubblico, da chi ha la responsabilità di condurre, dai politici».
Quando un Consigliere di stato dice «È stato un errore assumere un italiano», secondo lei è razzismo?
«Il messaggio che viene captato è “Gli italiani sono più inclini alla corruzione”. E questa è una chiara discriminazione. Quando il Consigliere di stato fa un'osservazione di questo genere, ci impedisce di fare un lavoro serio di costruzione di un clima e di una cultura contro la discriminazione. Si fanno dei passi indietro».
Come risponderebbe a chi dice: “Non siamo razzisti, se lo fossimo non avremmo il 25% di popolazione straniera”?
«Si vedono delle comunità di svizzeri che lavorano bene assieme agli stranieri. Il Ticino è un buon esempio. C’è però una corrente discriminatoria anche qui».
Le persone che si rivolgono alla Commissione federale contro il razzismo, cosa cercano?
«Cercano una consulenza. Normalmente, però, la Commissione federale non tratta singoli casi. Quello va fatto sul territorio, nel cantone. In Ticino c’è la Commissione cantonale per l’integrazione degli stranieri che ha tra i suoi compiti la lotta al razzismo e alla discriminazione. In questo contesto è stato creato CARDIS (Centro ascolto razzismo discriminazione), un ottimo sportello di informazione per vittime di razzismo che si trova a Lugano in via Merlina 3b».
Quali forme di difesa esistono contro la discriminazione?
«Lo strumento unico in Svizzera è l’art. 261 bis del codice penale che vieta atti discriminatori per causa di razza, etnia e religione. Se però una persona viene definita “sporco straniero”, non si tratta né di razza, né di etnia, né di religione. L’articolo quindi funziona, ma è troppo stretto. Quello che manca completamente in Svizzera è la protezione di diritto civile. Se qualcuno viene mandato via dal suo appartamento in affitto perché gli altri inquilini si lamentano del velo indossato dalla moglie, non c’è alcun tipo di protezione. Né tantomeno se non viene assunto in un posto di lavoro per essere musulmano o nero».
Come avvocato ha già trattato dei casi di razzismo in Svizzera?
«Sì, ma sono molto rari. L’ultimo che ho trattato era contro il signor Bignasca, da parte del signor Nenad Stojanovic. Non è finito perché purtroppo lui è morto prima della sentenza del Tribunale federale. Però sono delle procedure difficili, lunghe ed estenuanti. I 35 casi all’anno per i tribunali sono pochi. Non hanno l’abitudine di operare in questi settori e ci sono delle incertezze. Bisognerebbe proprio trovare dei mezzi per rendere più semplici e accessibili questi strumenti di difesa».
I fatti di cronaca però generano paura. E così per molti di noi l’islamico richiama al terrorismo.
«Legare il terrorismo alla diversità è uno sbaglio fondamentale. L’azione contro il proprio vicino - di terrorismo o comunque di violenza - capita in tutte le società. Ci sono delle varietà, delle graduazioni pericolose e soffocanti di atti terroristici, però non può essere ridotto a un’etnia o a una religione. È uno sbaglio grossolano».