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TicinoIl Festival come una mostra d'arte

02.08.01 - 09:26
«Ti godi il piacere della scoperta e ti senti anche un po' talent scout»
Il Festival come una mostra d'arte
«Ti godi il piacere della scoperta e ti senti anche un po' talent scout»
  • Marisa Marzelli

    Signora Bignardi, ritiene che il Festival da lei allestito sia generalista?

    «Domanda difficile. Anche perché bisogna intendersi sul significato del termine. Comunque, penso di no. In quanto ritengo che su tutte le scelte pesi, o conti, il profilo speciale dello “stile Locarno”. Cioè una ricerca, anche all’interno dei generi, che rende tutti i film selezionati un po’ diversi dai loro confratelli più tradizionali di ogni singolo genere. Quindi, se è generalista c’è comunque sempre una scelta secondo angolature molto particolari; oppure non è generalista nel senso che andiamo alla ricerca – appunto all’interno del film giallo, di guerra, storico, fantastico – di qualcosa di particolare».

    Glielo chiedo perché si sa che dopo Cannes, il grande Festival dove c’è tutto di tutto, vengono una serie di manifestazioni ravvicinate, più o meno grandi, da Pesaro fino a San Sebastian passando per Venezia. Locarno si trova lí in mezzo e deve in qualche modo differenziarsi. Deve riuscire a connotarsi come un Festival al quale è importante andare perché.... Perché?

    «Locarno è un Festival a cui è importante andare perché vedi del cinema che altrimenti non vedresti mai. Faccio l’esempio dei film italiani, che fanno a cazzotti per Venezia, senza a volte rendersi conto che la loro visibilità si perde in un Festival cosí affollato. Come le loro voci, sovrastate da chi grida di più: un certo tipo di cinema o scandaloso o americano, ecc. Invece a Locarno tutti i film sono proposti all’attenzione del pubblico. Alcuni vengono scoperti, altri no. Ma fanno circolare le loro idee e la loro forza. A Cannes, a Venezia ci sono inoltre tanti film che saranno nei cinema tre giorni dopo. Tu sei sicuro che li vedrai, che senso ha allora andare al Festival? Per esserci, per partecipare a un gioco collettivo. A Locarno, invece, si possono vedere cose che altrimenti si rischia di non vedere mai. Cose più complicate, magari più aspre, ma sono scoperte, di cui ci si può fare anche, in qualche modo, portatori. Chi viene qui diventa un piccolo talent scout e poi ne parla; a quel punto i film prendono vita, trovano magari un distributore, esistono. Ma, appunto, senza la garanzia che queste opere effettivamente le ritroverai nel cinema sotto casa, tre giorni dopo».

    C’è qualche film che voleva avere e che le è sfuggito?

    «Sí». (Risposta accompagnata da una risata sdrammatizzante – ndr.)

    Tanti?

    «Veramente non tanti. Diciamo che ne ho persi tre, litigandoci sopra molto. Con ciò non voglio dire che non ce ne fossero altri che mi sarebbe piaciuto avere, ma sappiamo benissimo quali sono i film che per vocazione hanno un Festival di riferimento. Non mi metto neanche a combattere per avere certe opere che, so benissimo, sono già in qualche modo prenotate. C’è come un appuntamento annuale: prova a strappare a Venezia un nuovo Woody Allen. Non ci penso proprio. Però ci sono tre film sui quali ho sofferto, ho combattuto, e poi sono stata sconfitta. Però, in tutto questo, almeno le cose con Alberto Barbera sono state molto chiare. Quando io avevo delle incertezze su un film sul quale anche lui era incerto ci chiarivamo e abbiamo lavorato senza equivoci, senza che ci fossero silenzi pericolosi. Mi sembra sia una buona forma di civiltà nel mondo festivaliero».

    A proposito di Venezia, pensa che la nuova formula della Mostra sarà davvero la svolta dei Festival? Da anni Barbera dice che bisogna cambiare l’impostazione, e quest’anno i concorsi sono diventati due.

    «Vedremo. Difficile dirlo a priori. Per noi sicuramente ha rappresentato un problema perché il miraggio di tanti soldi come quelli che mette in palio adesso Venezia e il fatto che una sezione, da contenitore, si sia trasformata in concorso è stato per molti lo specchietto per le allodole. Però bisognerà vedere come si troveranno gli autori che partecipano a un concorso “B”. Se saranno contenti o meno. Riprendiamo il discorso tra un paio di mesi...».

    Quanto al concorso, anche Locarno ha cambiato qualcosa. Quest’anno non ci sono film in gara proiettati in Piazza. Però lei ha detto di non voler rigettare in toto la formula.

    «Non la rigetto. Penso però che ci sia una certa equità nel presentare tutti i film nelle stesse condizioni. C’è un surplus di emozione che viene dalla Piazza, che in un certo senso può distorcere un pochino le proporzioni tra un film e l’altro. Comunque, non mi si è posto il problema. Nessuno ha insistito per essere in Piazza. Non è esclusa affatto la formula, anche se mi resta qualche riserva sul fatto che alcuni film siano privilegiati rispetto ad altri. Ma penso anche che Locarno abbia un pubblico molto speciale e che il pubblico del Fevi sia ancora più speciale e che quindi sia più disposto a vedere e a scoprire certe cose. In un certo senso, se si riesce a nutrire quel pubblico con le cose che gli piacciono e il pubblico della Piazza con opere che non devono essere necessariamente il blockbuster hollywoodiano ma una sua versione più interessante, forse si è raggiunta quasi la quadratura del cerchio. Faccio l’esempio di un film come quello di Bogdanovich, che di sicuro è di confezione ma con molte idee. Cosí come il film di Tim Burton, certamente una produzione da un centinaio di milioni di dollari, però allo stesso tempo è il frutto di una mente estremamente creativa e “diversa” dalla maggioranza degli autori di Hollywood. Ed è un perfetto film da Locarno e da Piazza. Se sono fortunata anche l’anno prossimo andremo avanti cosí, se no mescoleremo di nuovo le carte e vedremo».

    Già, Tim Burton. Appena uscito in America, Il pianeta delle scimmie è subito diventato un fenomeno, è in testa al box office... Come l’ha acchiappato Locarno, solo perché giocavano bene le date di presentazione in Europa?

    «Questo c’entra sempre moltissimo. Nel senso che gli americani sono molto attenti alle strategie e quindi scelgono di conseguenza a quale Festival mandare i loro film. Però hanno contato anche degli ottimi rapporti – di Teresa Cavina, per esempio – con le Majors e con Tim Burton, che lei corteggiava da molto tempo. A un certo punto anche un buon lavoro passato e altrui – nello specifico quello di Teresa – e un buon comportamento con certi partner portano a risultati concreti».

    Cambiamo discorso: il Pardo d’onore a Chen Kaige. Ma lui non porta un nuovo film.

    «Non era pronto. D’altra parte, ripercorrendo la storia dei Pardi d’onore, pochi premiati hanno portato una nuova opera. Bertolucci ha portato un nuovo film? De Oliveira? Certo, l’ha portato l’anno scorso Paul Verhoeven. Un paio di coincidenze fortunate recenti ci sono state... Però, anche nell’anno della grande folla per Daniel Schmid c’era Beresina, ma era già passato a Cannes. Il Pardo d’onore è un riconoscimento a un autore. Dopo di che, se c’è anche un film nuovo e inedito, tanto meglio, ma il premio va all’opera globale del regista. In questo caso Chen Kaige è un autore che si collega al nostro tema della retrospettiva ed è forse il primo Pardo d’onore che premia l’Oriente. Visto che è un’annata con tanta Cina, mi sembrava una scelta giusta e logica. Traccia un’altro piccolo cerchio attorno ai nostri temi».

    Una piccola domanda provocatoria: è necessario che tutti i festival nel 2001 dedichino un omaggio ai Cahiers du Cinéma?

    «Penso di sí, anche perché a Cannes non se n’è accorto quasi nessuno. A Pesaro hanno fatto qualcosa, adesso lo facciamo noi; però lavorando con loro. Nel senso che i Cahiers – e parlo di una rivista leggendaria – hanno prodotto un libro su qualcosa che abbiamo organizzato noi (il libro L’Asie à Hollywood, coedizione Festival del film di Locarno e Cahiers du Cinéma, 256 pagine, a cura di Charles Tesson, Claudine Paquot e Roger Garcia – ndr). È una reciproca collaborazione, nata prima che Locarno avesse quest’idea un po’ stravagante di assegnare ai Cahiers un Pardo d’onore speciale. Quello che noi facciamo rispetto a Cannes, essendoci qui meno confusione mediatica, è sottolineare il riconoscimento che si merita una rivista che ha fatto in parte la storia del cinema, offrendole anche un’occasione per rievocare la propria di storia. La stessa rivista, insisto, si è offerta come collaboratore per studiare un tema che a loro piace moltissimo, quello appunto dei sino-americani o degli Asian Americans, quindi c’era una naturale confluenza di due idee. Non è che noi seguiamo modelli altrui. Ma era un anniversario che a noi, avendo questa partnership, è anche sembrato logico e naturale sottolineare».

    Per finire, un film consigliato dal direttore, ovviamente concorso escluso.

    «Amo molto due film. A parte i grandi titoli spettacolari. Uno è My Napoleon, molto carino, una fantasia sulla storia di Napoleone. L’altro è quello scelto da Geoffrey Gilmore come film Sundance, The Deep End. Oltre che lo spirito di Sundance rappresenta molto lo spirito di Locarno, per me. Cioè un film di genere (perché è un thriller, perché c’è una morte, perché c’è suspence) ma anche condotto come succedono le cose nella vita, non come succedono nel cinema. Con la capacità di costruire la suspence di un grande noir ma anche con l’attenzione a elementi autentici e profondi. E poi Tilda Swinton è meravigliosa. Sono contenta, aggiungo, che Geoffrey Gilmore abbia scelto proprio questo film a rappresentarlo, perché avrei voluto averlo io, ma non potevo in quanto era già stato proiettato altrove. Cosí, con questa sorta di trucco me lo riporto in casa. Questi sono i consigli del direttore. Ma ci sono anche tanti altri film da scoprire».

    Corriere del Ticino del 2 agosto 2001

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