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TicinoUn viaggio tra le immagini della mente

09.08.04 - 09:30
Un viaggio tra le immagini della mente
Alfredo Knuchel parla del film che ha girato in una clinica psichiatrica

Antonio Mariotti , CdT

Le critiche di Pascal Couchepin nei confronti della politica cinematografica dell’Ufficio federale della cultura, con tanto di opinioni molto personali su alcuni film sostenuti dalla Confederazione, non hanno certo interrotto il flusso di opere elvetiche, di qualità quasi sempre buona ( come quella di cui parliamo qui sotto) sugli schermi del Festival.Per il successo commerciale bisognerà invece forse attendere dicembre e l’uscita nelle sale di The Ring Thing, demenziale risposta elvetica aI Signore degli Anelli che trasporta la Terra di Mezzo nel centro della Confederazione. A lfredo Knuchel potrebbe già godersi da qualche anno le « gioie » della pensione. Invece questo exgiornalista di Radio Svizzera internazionale ed ex- direttore del Centro svizzero del cinema, nato e residente a Berna ma che ha passato una parte della propria giovinezza in Ticino, da una dozzina d’anni si è lanciato con successo nella regia di documentari. Nel 1996 ha firmato ( insieme a Norbert Wiedmer) Besser und Besser , nel 1999 Vaglietti zum Dritten ed ora conclude quella che lui considera una vera e propria « trilogia sull’arte del perdere » con Halleluja! Der Herr ist verrückt ( Halleluia! Il Signore è pazzo) che sarà proiettato domattina a Locarno nell’ambito della sezione Appellations Suisse. Lo abbiamo intervistato.

Alfredo Knuchel, com’è stato il suo approccio, da regista, nei confronti di una situazione non certo semplice come quella della clinica psichiatrica di Waldau? Qual’era la sua idea iniziale quando ha cominciato il lavoro per questo documentario?

« All’inizio del 2000 ho letto un articolo sul museo della psichiatria che si trova appunto alla Waldau e in particolare sulla collezione Morgenthaler. È un argomento che mi ha subito affascinato anche perché lì soggiornò per oltre trent’anni Adolf Wölfi, considerato un pioniere dell’Art Brut, e visto che la Waldau si trova a cinque chilometri da casa mia sono andato a dare un’occhiata. Lì, ho incontrato il signor Feldmann, un artigiano che da 40 anni si occupa a tempo perso della collezione per quel che riguarda la storia della clinica. Ho allora deciso di approfondire il mio discorso su questo versante, poi però ho fatto un secondo incontro importante: quello con Otto Frick, pittore- imbianchino, impiegato della clinica, ed ho scoperto che nel suo laboratorio s’incontrano regolarmente pazienti che fanno pittura. Mi sono reso allora conto che in modo informale, non veramente voluto dalla clinica ma tollerato, senza alcun programma preciso, Frick continua la tradizione di Morgenthaler interessandosi a questi lavori, a questa gente e fornendo loro il materiale necessario. Senza però, ovviamente, poter fare come Morgenthaler che voleva affinare le sue possibilità diagnostiche attraverso l’interpretazione dei lavori dei malati » .

L’aspetto più sorprendente del film è proprio quello di non vedere praticamente mai un medico, uno psichiatra. Ce n’è uno solo che viene interpellato come collezionista delle opere di un malato. Una scelta ben precisa?

« Certo, non ho voluto che ci fossero i cosiddetti specialisti a parlare di queste persone, per mantenere un equilibrio tra me e loro e far sì che loro potessero raccontare quello che volevano.Ad esempio, non si sa nulla dei loro rapporti familiari, quasi niente sulle loro diagnosi. Si sa solo quel che dicono spontaneamente, io non li ho mai sollecitati in questa direzione. Non ho voluto nemmeno l’avviso di sociologi, critici d’arte o psichiatri.Doveva essere un film di pancia e non di testa » .

Ma i medici si interessano all’attività artistica di questi pazienti?

« Come ogni clinica psichiatrica, anche la Waldau ha programmi di ergoterapia nei quali i medici o altri operatori specializzati incitano i pazienti ad esprimersi, ma io mi sono concentrato su sei persone che, al di là o contro queste offerte terapeutiche, vogliono esprimersi e, facendolo da decenni, hanno acquisito un proprio stile, una propria personalità precisa, anche se dal punto di vista del risultato bisogna differenziare: si va dal pittore naïf a quello che ha seguito l’accademia di belle arti, dunque la qualità è molto diversificata. Ognuno di loro, però, ha alle spalle una lunga attività creativa ed un proprio linguaggio subito riconoscibile. Tutti e sei, fondamentalmente se ne fregano delle terapie » .

Le loro opere sono però anche espressione di una profonda sofferenza e sono influenzate dallo stato psicofisico dei singoli. Le è capitato di aver dovuto abbandonare qualcuno perché stava troppo male per filmarlo?

« Abbiamo dovuto ogni tanto interrompere le riprese perché uno o l’altro non stava bene, questo sì, però non c’è mai stato un blocco totale. Ciò che li accomuna è anche il fatto che da decenni fanno dentro e fuori dalla Waldau » .

Aveva degli accordi precisi con la direzione della clinica per poter stabilire se e quando dovesse interrompere le riprese?

« Sì, dall’inizio abbiamo stabilito delle regole molto precise: io ho rinunciato a priori ad entrare nelle sezioni chiuse, però per il resto mi è stata lasciata ampia libertà d’azione. I contatti tra me e i protagonisti del film erano diretti, senza intermediari, non dovevo chiedere di volta in volta il permesso » .

Ora che il film è finito, come vede questo viaggio all’interno del mondo della clinica psichiatrica? Qual è stato il fattore più determinante per poter concludere un progetto non certo facile?

« Il fattore tempo, sicuramente.Bisogna poter procedere passo dopo passo, approfondire poco a poco i rapporti senza chiedere troppo alla volta. Evidentemente girando questo film mi sono convinto ancor di più di quanto lo fossi in precedenza che il limite tra il “ normale” e l’“ anormale” è molto fluido e che forse le opere di queste persone sono più autentiche e più “ vere”, se si può parlare di verità, dei nostri sforzi spesso troppo legati alle convenzioni » .

La situazione che documenta nel suo film è molto legata a delle iniziative personali e potrebbe quindi interrompersi da un giorno all’altro?

« Certo, se non ci fosse più il signor Frick probabilmente queste persone continueranno a dipingere ma mancherà loro un fondamentale catalizzatore. Del resto, fra due anni lui andrà in pensione e il pericolo è che il laboratorio di pittura venga definitivamente chiuso e che anche per la manutenzione corrente la clinica faccia capo a delle ditte esterne, così come è già successo con il posto occupato da Feldmann che è stato abolito al momento del suo pensionamento » .

Crede che il suo film possa aver contribuito a suscitare una riflessione su questi cambiamenti all’interno della clinica?
« Forse ha contributo a mettere in evidenza con maggior chiarezza l’importanza di questa attività anche per la clinica che in fondo “ approfitta” del film, poiché dà di essa un’immagine tutto sommato positiva. Spero che la direzione rifletterà sulla responsabilità, anche storica, che ha, poiché la collezione Morgenthaler è stata abbandonata per decenni ed è stato solo grazie a Feldmann che si è potuta ordinare e conservare fino ad oggi » .

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