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Vendendolo l'uomo d'affari voleva realizzare un utile di 100 milioni di franchi. Sarà giudicato per la terza volta
ZURIGO - Non potrà essere condannato a più di 24 mesi di carcere l'uomo d'affari svizzero che sosteneva di possedere il Santo Graal, la coppa usata da Gesù nell'ultima cena e poi da Giuseppe d'Arimatea per raccoglierne il sangue sul Calvario, secondo la celebre leggenda medievale. Lo indica il Tribunale federale (TF) in una sentenza pubblicata oggi all'attenzione della magistratura zurighese.
Quest'ultima dovrà dunque giudicare per la terza volta l'uomo d'affari, oggi 66enne, condannato in prima istanza a tre anni di carcere, di cui 18 da scontare, per truffa e falsità in documenti. Il Tribunale cantonale aveva successivamente ridotto la pena a 27 mesi di carcere, di cui 15 da espiare.
I fatti risalgono al 2005, quando l'uomo aveva acquistato per 300'000 euro un calice d'oro di 11 chili, scoperto nel 2001 nel Chiemsee, un lago bavarese. Affermando che si trattava del vero Santo Graal, si era ripromesso di venderlo per realizzare un utile di 100 milioni di franchi.
L'uomo d'affari era riuscito a convincere alcuni investitori, che gli avevano ceduto diversi milioni di franchi. In seconda istanza, l'entità della truffa è stata stimata a 2,5 milioni di euro.
Il denaro è stato usato dal truffatore per bisogni personali, quali appianare debiti e portare avanti certi suoi vecchi progetti. Si era inoltre concesso un salario mensile di 24'000 franchi.
La coppa, alta 30 centimetri per un diametro di 50, è attualmente depositata presso l'Ufficio esecuzione e fallimenti di San Gallo. Le ipotesi sulla sua origine sono molteplici: stando a taluni si tratta di un cimelio del Terzo Reich, mentre per altri è un calice celtico. Stando ad una perizia, la coppa è stata fabbricata negli anni Trenta.
ats
