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LUGANODe André, Gaber, Graziani: «Estremamente liberi e profetici»

01.06.17 - 07:00
Tre giganti della musica italiana che Andrea Scanzi ha riunito nel monologo-conferenza preparato in esclusiva per POESTATE, piatto forte del programma del 2 giugno
De André, Gaber, Graziani: «Estremamente liberi e profetici»
Tre giganti della musica italiana che Andrea Scanzi ha riunito nel monologo-conferenza preparato in esclusiva per POESTATE, piatto forte del programma del 2 giugno

LUGANO - Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Ivan Graziani. Tutti e tre hanno avuto a che fare “musicalmente” con Lugano: Gaber suonò in tv una famosa versione di “Addio Lugano bella”, Graziani la citò in una delle sue canzoni più famose, e De André ne parlò nel suo capolavoro Creuza de ma, dando un ritratto breve ma non proprio lusinghiero dei suoi cittadini. Tutti e tre saranno protagonisti del monologo teatrale inedito che il giornalista e scrittore Andrea Scanzi ha realizzato espressamente per POESTATE e organizzato in collaborazione con Promo Music.

Lei ha già omaggiato, De André, Gaber e Graziani in più occasioni. Come le è venuta l’idea di un monologo che riunisce questi tre artisti?

«In questo monologo-conferenza racconto le analogie e le differenze tra questi tre giganti della musica. POESTATE mi aveva chiesto qualcosa di inedito e ho unito questi tre artisti, ai quali voglio bene e che conosco. Lo faccio raccontando i punti di contatto, che sono più di quanto si creda. Nel monologo insisto su alcune intuizioni, come l’idea di Graziani di creare un concept album sulla pigrizia mentale, “Pigro”, che denunciava (come ha fatto anche Gaber) il rischio che gli italiani si spegnessero e preferissero sopravvivere piuttosto che vivere. Un’altra analogia tra i due riguarda “Fuoco sulla collina” di Graziani, scritta nello stesso periodo di “Polli d’allevamento” di Gaber: la storia di un ragazzo che sogna una battaglia in cima alla collina ma poi scopre che si è trattato solo di un sogno, e scambia le luci di trattori per i fuochi della rivoluzione. Una cosa che unisce tutti e tre è che erano estremamente liberi e non etichettabili. Un’altra è che tutti e tre sono morti nel mese di gennaio, e giovani».

Quali sono i tratti distintivi di questi grandi artisti?

«Dei tre, Gaber era molto più legato al tempo storico in cui viveva. Non aveva paura di “sporcarsi le mani”, come si vede in brani come “Io se fossi Dio” e “Qualcuno era comunista”. Gaber è profetico, le sue canzoni sembrano scritte domani. Lo erano però anche gli altri due. De André è più universale, ma questo non vuol dire che le canzoni di Gaber siano invecchiate peggio, anzi. Gaber non ha seguito un percorso discografico canonico con il suo Teatro-canzone, quindi per i ragazzi di oggi è un po’ più difficile accostarsi a lui rispetto a De André, che si è mosso lungo un cammino discografico tradizionale. Ivan Graziani è il più sottovalutato in assoluto degli artisti italiani, e la rivalutazione tarda ad arrivare».

Poestate è un festival di poesia: poeti e cantautori devono avere una funzione di guide morali, soprattutto quando la moralità sembra essere scomparsa dalla società?

«È difficile imporre un ruolo a un artista. Personalmente preferisco chi non è un semplice accompagnatore nell’esistenza: credo che più che una guida morale debba offrire degli stimoli affinché lo spettatore si migliori. De André diceva che l’artista deve essere “l’anticorpo della società"».

Tutti e tre erano degli “irregolari” nel contesto della musica e della cultura italiana: oggi De André è stato “santificato”, Gaber è citato continuamente (spesso a sproposito) e Graziani è messo in disparte. Come spiega questa disparità di trattamento?

«Nel caso di De André, quando muore un personaggio rivoluzionario (come era lui) tu lo santifichi e in questo modo lo disinneschi. Gaber è citato a casaccio, sempre. Tutto parlano di “Libertà è partecipazione”, che è un verso che lui e Luporini non amavano poi così tanto, e “Destra-sinistra”, che in fondo non è che un divertissement. Per Graziani c’è un mix di fattori, e sicuramente una componente di sfiga. Lui aveva ricevuto critiche feroci da chi contava nel mondo discografico, e ha pagato anche il suo essere poco accondiscendente e non tanto “sgamato”. Graziani aveva osato unire il rock alla musica d’autore, e se la riscoperta non è ancora arrivata è perché non ha avuto dei “cantori” che l’hanno rivalutato, come è avvenuto invece con Rino Graziano».

Nella società odierna ci sono molti che “fanno finta di essere sani”, come cantava Gaber?

«Sono molti di più di quanti fossero negli anni ‘70, quando è stata composta la canzone. Ci siamo rincoglioniti ancora di più e siamo arrivati a un livello minimo di coscienza. Siamo allergici all’indignazione e sempre più pazzi: abbiamo paura dello straniero quando, in fondo, i veri diversi siamo noi. Mi manca la voce critica di Gaber».

Sempre lui parlava della quasi impossibilità di realizzare e far diventare viva un’idea. Perché è così difficile?

«Chi ha un’idea fa paura ed è rivoluzionario. Chi detiene il potere ha tutto l’interesse a fagocitare l’idea di chi è molto più intelligente e guizzante, così da neutralizzarla. Un problema di oggi è che i giovani hanno sempre meno nutrimento culturale: si sono cibati di libri, di film e di musica peggiore rispetto a una volta. In questo modo il giovane diventa più debole. In realtà gli stimoli intellettuali ci sono ancora, ma devi andare a cercarli con il lanternino».

Tutti e tre parlavano dell’individuo in rapporto alla società: oggi ci sono in giro più “cani sciolti”, “suonatori Jones” o individui “fottuti di malinconia”?

«”Suonatori Jones” ce ne sono pochi, perché per esserlo non devi avere rimpianti. “Fottuti di malinconia” sì, ma Ivan aveva un’accezione romantica, e non è quella che va per la maggiore ora. Di “cani sciolti”, infine, ce ne sono pochi in senso positivo e molti in quello negativo».

Nel 2012 scriveva: «La canzone d’autore è morta. O forse siamo diventati sordi». Oggi le cose sono migliorate o peggiorate?

«Non sono morte le idee buone. Bisogna ammettere che 5-10 anni fa siamo stati peggio. Ogni generazione ha avuto una certa rigogliosità creativa, ma non tutte hanno saputo sfornare lo stesso talento: basti pensare a quella che ha dato Gaber, De André, Guccini, Dalla, De Gregori e tanti altri. Una conseguenza della situazione odierna è la crisi della discografia, ma c’è poi un diverso approccio nei confronti della figura del cantautore. Una volta venivano ascoltati e anche contestati duramente, come nel caso del “processo” a De Gregori. Il loro era una sorta di Verbo. Oggi, cosa gliene frega alla gente di cosa dice un cantante?»

Se tutti e tre oggi fossero ancora con noi, sarebbero ancora in attività? Di cosa parlerebbero nei loro album?

«Gaber aveva bisogno del contatto con il pubblico, e sarebbe ancora sul palco. Magari si sarebbe staccato dalla politica ma non dal teatro: lui era uno che faceva 180 date in un anno, era la sua ragione di vita. Graziani sarebbe stato sempre un chitarrista, mentre De André probabilmente avrebbe fatto meno. Qualche segnale l’aveva già dato, negli ultimi anni pubblicava un disco ogni sei anni. Soffriva più degli altri il ruolo dell’artista».

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