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L'OSPITEPrincipi giusti, soluzioni sbagliate

23.11.15 - 12:25
Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti
Principi giusti, soluzioni sbagliate
Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti

Ho già avuto modo di scrivere qualche tempo fa sull’adozione delle ordinanze d’esecuzione del cosiddetto “Swissness” (leggi l’articolo), in sostanza le ordinanze che concretizzano quanto previsto dalla legge sulla protezione dei marchi (LPM) che dovrebbe regolare una migliore protezione del marchio svizzero e quindi delle aziende svizzere nel mondo.
Uso volutamente il condizionale “dovrebbe”, perché, malgrado un lungo e tormentato iter legislativo, la montagna sembra aver partorito un topolino. O forse sarebbe meglio dire un topolone, visto il consistente rischio di massiccia burocratizzazione per ottenere la possibilità tanto sospirata di utilizzare la bandiera svizzera sui prodotti o comunque per tutelare la “svizzerità” (neologismo orribile ma non ho trovato di meglio). Del resto, quando marchi storici elvetici come “Toblerone” o “Rivella” temono di non poter più soddisfare i criteri previsti dalle nuove disposizioni legali, qualche domanda sarebbe opportuno farsela. Vero che in un’economia sempre più dinamica e internazionalizzata i marchi passano di mano facilmente e quello che è svizzero oggi o che lo è stato per decenni, non deve per forza esserlo anche domani. Tuttavia, rafforzare la piazza economica elvetica eliminando marchi storici importati non mi sembra una grande strategia. Ma ormai la frittata è fatta e con le nuove regole occorre convivere, cercando di utilizzarle al meglio. Sarebbe inelegante dire “per limitarne i danni”, ma non siamo molto distanti dalla realtà. Nelle scorse settimane abbiamo organizzato diversi incontri con le aziende industriali di vari settori, per cercare di capire insieme le nuove regole. Impresa non facile, anche perché le ordinanze in molti punti invece di concretizzare la legge si limitano a ripeterne il contenuto. Con buona pace delle aziende e delle loro necessità di pianificazione strategica per i prossimi anni. Cercheremo di fare il nostro meglio affinché le nostre aziende possano godere della giusta protezione, malgrado lo “Swissness”…

Ma le sorprese non finiscono qui, peccato che siano raramente di segno positivo. Lo scorso 4 novembre è entrata in vigore la nuova ordinanza sulla registrazione della durata del lavoro (vai al sito della SECO), pomposamente sdoganata con lo slogan ”certezza del diritto e sgravio amministrativo”. Straordinario, verrebbe da dire. Come dice l’amministrazione federale, finalmente si tiene conto delle esigenze delle imprese, dei lavoratori, della certezza del diritto (e della pace del mondo, aggiungo io). Fantastico, roba da applausi scroscianti. Sennonché una lettura un po’ più attenta di questa magnifica nuova versione dell’ordinanza rivela che resta immutato l’obbligo di registrazione sistematico del tempo di lavoro, anche se il modo di registrazione resta libero (in teoria, poi in pratica dove non c’è una registrazione meccanica o elettronica sistematica sono dolori). Questo vale per chi non dispone di una certa autonomia nella fissazione del suo tempo di lavoro. Per chi invece gode di una certa autonomia, vi è una registrazione semplificata, che può limitarsi a indicare il totale delle ore giornaliere lavorate. A condizione che vi sia un accordo scritto fra azienda e dipendenti, mentre per le imprese con oltre 50 collaboratrici e collaboratori ci possono essere accordi individuali. Infine, con un colpo da maestro (o di coda) dei partner sociali (nazionali), se vi è un contratto collettivo di lavoro (e l’approvazione dei singoli dipendenti) si può rinunciare a registrare la durata del lavoro per lavoratrici e lavoratori che superano il livello di 120’000 franchi annui di salario lordo annuale e che hanno ampia libertà di gestire il proprio tempo di lavoro. Alcune osservazioni sono inevitabili. La tanto decantata flessibilità richiesta dall’odierno mondo del lavoro non riguarda più solo quelli che si presume abbiano maggiore libertà gestionale per funzione e salario. La sempre meno netta distinzione fra vita privata e lavorativa, i nuovi modi di lavorare (SmartWork, ecc.) fanno sì che l’autonomia gestionale sia una realtà concreta ad esempio anche per giovani che guadagnano molto meno di quanto posto come limite e che non hanno funzioni dirigenti. I lavoratori vanno protetti? Certamente, ma non castrandoli. Senza parlare di moltissime piccole e medie imprese che sempre meno sono legate alle dinamiche degli orari fissi. Giusto cercare una soluzione di compromesso, ma ancora una volta si parte da principi obsoleti e da un’idea di flessibilità legata troppo intrisa di vecchi schemi. Peccato, un’altra occasione persa. Il mio collega sangallese, attento osservatore delle dinamiche che minano la libertà imprenditoriale, osservava qualche giorno fa che lo stipendio medio dei funzionari federali nel 2013 era di 120’075 franchi. Probabilmente non è un caso che l’ordinanza parli di un limite di 120’000 franchi per stabilire quando qualcuno è più libero o meno. Ma non si può certo dire che rispecchi la realtà del terreno.

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