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CANTONEUna droga chiamata teatro: «In scena sono diventato il sogno di me stesso»

15.11.21 - 06:00
Arturo Brachetti sarà al Palexpo Fevi il 4 dicembre con "Solo", travolgente show tra trasformismo e illusione
PAOLO RANZANI
Arturo Brachetti si accinge ad arrivare a Locarno.
Arturo Brachetti si accinge ad arrivare a Locarno.
Una droga chiamata teatro: «In scena sono diventato il sogno di me stesso»
Arturo Brachetti sarà al Palexpo Fevi il 4 dicembre con "Solo", travolgente show tra trasformismo e illusione

LOCARNO - Sabato 4 dicembre il Palexpo Fevi di Locarno spalancherà le porte ad Arturo Brachetti, colui che viene unanimemente considerato il più grande trasformista al mondo. L'artista tocca la città sul Verbano con il tour di "Solo", uno show di quick change (come viene anche chiamato il trasformismo) partito la scorsa settimana da Asti e che ripercorre tutta la sua carriera. Gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di più.

Quali sono le caratteristiche di questo spettacolo?
«È uno one-man-show che esaudisce tutte le aspettative di chi mi conosce. Faccio 65 trasformazioni, disegno sulla sabbia, ci sono le ombre cinesi e la luce laser, eccetera. È uno spettacolone, insomma, che prosegue da cinque anni - giustamente, perché funziona molto bene».

Un esempio?
«Già nei primi dieci minuti lo spettatore si becca una mitragliata di trasformazioni: faccio un pezzo sulle serie televisive - L'incredibile Hulk, la signora Fletcher, Wonder Woman, lo zio Fester, Sherlock Holmes, Batman, Baywatch... Di recente ho aggiunto anche "La casa di carta"».

Cosa affascina maggiormente il pubblico in uno spettacolo di trasformismo?
«La gente viene per vedere quello che si trasforma, come diavolo fa, adesso gli troviamo i trucchi... Ed è un ottimo inizio di viaggio. Si prosegue, poi, in quello che diventa anche un racconto poetico: è la storia di un Peter Pan di ormai 64 anni - io sono un 14enne imprigionato nel corpo di un 64enne - che fa pace con la sua ombra. Ovvero con la parte razionale di noi stessi: l'ombra che resta attaccata alla terra, ai muri, che ci vuole portare di nuovo nella terra. La gente si ritrova in questo sentimento toccante ed è questa la vera forza dello spettacolo: è la proiezione del desiderio di molti di restare bambini eternamente».

Quindi si finisce con il lasciarsi conquistare dalla dimensione magica?
«Certo, da quella che è una magia di sentimenti, di emozioni, che parlano al cuore.

Pensa mai agli inizi della sua carriera e a dove è arrivato ora?
«Spesso, e mi fa un po' paura andare in magazzino e vedere i 450 costumi che vi sono conservati. Un giorno farò un falò e li brucerò tutti, come fece Georges Méliès con i suoi film...».

Cosa prova nello stare di fronte a una tale mole di ricordi?
«Un po' di nostalgia: vedere i costumi è come sfogliare un album fotografico, in cui ognuno mi racconta un pezzo del film della vita. Poi guardo i premi, i manifesti nel mio studio... Se dovessi morire adesso, potrei dire: "Rien de rien, je ne regrette rien"».

Quanto sono fisicamente impegnativi questi spettacoli?
«La mia più grande inquietudine è di ritrovare il ritmo adrenalinico di due anni fa. Per mantenere l'agilità necessaria ho fatto ginnastica tre volte alla settimana per tutto il periodo del lockdown, ho seguito le indicazioni del personal trainer, la dieta l'ho continuata... Mi sono tenuto pronto a tornare sulle scene, perché questo è il senso della mia vita».

Come ha affrontato il confinamento durante le prime fasi della pandemia?
«Non dico che all'inizio è stato un periodo giocoso ma è stata una vacanza, una cosa diversa. A marzo di quest'anno, invece, io e tutti i miei colleghi attori abbiamo incominciato ad avere il dubbio che il teatro non si potesse mai più riaprire. Allora ti chiedi: su questo pianeta, che cosa faccio?».

Si è trovato dinanzi a un bivio esistenziale?
«Ho fatto sei anni in seminario, tra i 10 e i 17 anni, ed è lì che ho incontrato il prete che mi ha insegnato i giochi di prestigio. Quando a 17 anni lasciai il seminario mi disse: non è importante avere una vocazione religiosa, l'importante è avere una vocazione. Se la tua è quella di far sognare e sorridere, perseguila. E così ho fatto: ho sempre vissuto la mia vita come una missione. La dieta, la ginnastica non sono un peso perché fanno parte della missione. Se qualche mese fa mi fosse stato detto che non avrei più potuto farlo perché l'istituzione teatrale sarebbe rimasta chiusa per sempre, mi sarei sentito veramente perso».

Di recente ha detto: «La trasformazione è importante, vitale. Bisogna però viverla e non subirla». 
«La trasformazione è un cambiamento, fa sempre paura. È vitale ed è imprescindibile: avviene anche se tu non vuoi, perché il mondo è fatto così, fortunatamente. Tutta la nostra vita, la civiltà, la natura stessa è trasformazione. Succederà, che tu lo voglia o no. Tanto vale organizzarla, pianificarla, indirizzarla a tuo favore».

C’è un personaggio, tra quelli rappresentati in questo o negli altri spettacoli, che ama particolarmente?
«Siccome durano uno o due minuti, non ce n'è mai stato uno a cui mi sono affezionato veramente».

Ma c'è un momento che preferisce quando è in scena?
«Il più piacevole è quando io volo. C'è tutta una "macchineria" che mi tira su e mi fa girare... Ma se la dimentico e mi lascio andare, il Peter Pan dentro di me si risveglia selvaggiamente. Vai sulle punte delle dita, poi lasci il suolo e cominci a salire verso la galleria e vedi le faccine della balconata. È proprio un sogno che diventa realtà, e chissenefrega se c'è un trucco!».

Se parliamo di teatro e Arturo Brachetti, pensiamo anche ad Aldo, Giovanni e Giacomo: quali sfide comporta essere il regista dei loro spettacoli?
«(ride, ndr) Quando avevo 18 anni ho preso il diploma di maestro elementare, e non ho mai esercitato. L'unica volta che l'ho fatto è stato con Aldo, Giovanni e Giacomo. Nonostante siano miei coetanei, quando iniziano le prove la loro età scende paurosamente. Ma meno male! Quando abbiamo registrato lo special andato in onda su Discovery (intitolato "Abbiamo fatto 30...", ndr) mi accorgevo che io ero lì come la maestra che costringeva i bambini a lavorare, come è sempre stato negli ultimi 20 anni. È un meccanismo che mi va bene e funziona, è stimolante».

Magia del teatro?
«Sì, di questo luogo che ci dà la libertà di tornare bambini. Io come regista non posso permetterlo, ma come artista lo faccio ogni sera: in scena sono diventato il sogno di me stesso. Mi cambio, volo, divento uomo, donna, giovane, anziano... Immagino di avere dei superpoteri sul palco: è il momento più elettrizzante e fantasmagorico della mia vita. È chiaro che è una droga, ed è per questo che ci voglio tornare al più presto».

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