“Nomadland”, con una strepitosa Frances McDormand, è l'inedito ritratto di un popolo che segue le stagioni e il lavoro
LUGANO - Nell'immensità delle distese degli Stati Uniti, quelle che le telecamere di cinema e serie non riprendono mai, un giorno una miniera chiude e con essa scompare dalla faccia della terra un paesino. Niente più codice d'avviamento postale, niente più lavoro, niente più niente.
Per chi lì ci abitava è un esodo, c'è chi trova una nuova casa, una nuova carriera. E chi, come Fern, invece perde tutto. Anche il marito, che fra i sassi ci ha lavorato fino a morire del male del secolo. Per lei inizia così una vita da nomade, fra gli Stati Uniti seguendo le stagioni in cerca di lavoro.
A dicembre si impacchetta da Amazon, in primavera i camping, l'estate allo Zoo e l'autunno a raccogliere sacchi di patate. Così, ciclicamente. Fern però non è sola, è un membro di una tribù enorme, un popolo di gente tagliata fuori da tutto che, in maniera dignitosa, semplicemente vive.
Questo è “Nomadland” della regista Chloé Zhao, per molti la pellicola più notevole di questa anomala annata cinematografica. Lo vedremo al cinema a partire dal 24 marzo, se saranno aperti e ce lo auguriamo, anche perché il film in questione merita di essere visto sul grande schermo.
«Sono una senzatetto, non una senzacasa», così si definisce Fern - interpretata da quel mostro sacro che ormai è Frances McDormand - e che viene ripresa durante i suoi 12 mesi di vita per la strada. «È stato un salto nel buio, l'atterraggio mi ha colpita duramente», ha confermato lei stessa nella conferenza stampa post-visione del film concessa a noi giornalisti, «ho letto il copione, ma l'impatto con la realtà del vivere per la strada è stato fortissimo».
Un anno, il suo e quello del suo personaggio, fra le pareti di lamiera di un van plasmato giorno dopo giorno per diventare un'abitazione. Visitando scorci mozzafiato - fra il gelido Nord e il torrido Sud - e incontrando quel popolo che bazzica per le strade di una nazione fra le più enormi al mondo.
Un nugolo di teste brizzolate e bianche, gente che - verso la fine della vita - per un motivo o per l'altro è restata senza lavoro, senza famiglia e senza casa. La pensione non basta, quindi bisogna spostarsi in cerca di lavoro, ma anche per placare una sorta d'irrequietezza esistenziale da chi si ferma è perduto.
“Nomadland” è un'opera poetica, legata alla semplicità e alla dignità del vivere senza giudizi e senza confini, ma è anche uno spietato saggio giornalistico - tratto da un libro d'inchiesta - che racconta un'America, fatta di lavori temporanei e carovane, che quasi nessuno conosce. La voglia di fare cronaca è il motore del copione, ma finisce per dissiparsi a contatto con l'umanità e con le immagini.
Quello che ne esce è un ritratto commosso e affezionato di un popolo di ultimi, i nomadi dell'era moderna, che procedono per la loro strada - perché la loro vita è la strada, e sulla strada si spegnerà - con umiltà, resilienza e un'inestinguibile solidarietà.