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LUGANODrigo: «Il rock oggi? Stiamo ascoltando la musica dei Teletubbies»

20.12.19 - 06:00
Il chitarrista dei Negrita si racconta in un’intervista, tra passioni e aneddoti. A gennaio saranno in concerto a Lugano
Negrita
Drigo: «Il rock oggi? Stiamo ascoltando la musica dei Teletubbies»
Il chitarrista dei Negrita si racconta in un’intervista, tra passioni e aneddoti. A gennaio saranno in concerto a Lugano

LUGANO - Il 24 gennaio i Negrita tornano a Lugano per festeggiare i 25 anni di carriera. Per l’occasione abbiamo intervistato Drigo, chitarrista e anima del gruppo toscano, che ci ha raccontato il concerto, le sue passioni e lo stato attuale della musica rock.  

Che concerto vedremo a Lugano? 
«Sarà una serata dove festeggeremo i 20 anni dell’album “Reset”, passando dall’acustico a brani più “elettrici”. Daremo molto spazio a canzoni che di solito non suoniamo nei nostri concerti, ma non dimenticheremo le classiche hit». 

Qual è il momento che come gruppo non dimenticherete mai? 
«Mi viene in mente il viaggio in Sudamerica, che abbiamo fatto durante la composizione e registrazione dell’album “L’uomo sogna di volare”. Quando siamo partiti eravamo sconsolati perché la musica internazionale non ci stava offrendo degli input interessanti. Dopo la scomparsa di Kurt Cobain, per chi fa rock, si è perso un punto di riferimento, un profeta, che non è più tornato. Ascoltando la musica di matrice anglosassone non trovavamo nulla di troppo esaltante, così partimmo in Sudamerica, dove facemmo anche un tour, toccando il Brasile, Cile, Uruguay, Argentina, luoghi in cui abbiamo incontrato altri musicisti e ci facevamo ispirare da tutto ciò che vedevamo e sentivamo».

Infatti con i vostri brani si ha spesso la sensazione di viaggiare. Quanto sono importanti i viaggi per la vostra musica? 
«Componiamo in giro per il mondo, dal viaggio in Sudamerica. Forse non esiste una realtà come la nostra, che davvero è andata a cercare ricette, influenze, colori, sapori, suoni, così in profondità, in posti neanche troppo frequentati da chi si occupa di rock. Il Sudamerica, per citare lo stesso viaggio, era un luogo che, prima di partire, conoscevamo solo attraverso i film e la letteratura, ma non con la musica. Furono dei momenti folgoranti, e assorbimmo la lezione che viaggiando si riesce ad immagazzinare il qui ed ora in una maniera che non avviene ascoltando i dischi o cercando su internet. Fu un viaggio bellissimo, eravamo ogni giorno entusiasti e affascinati dalle scoperte che facevamo, così come dai panorami e dalle persone che conoscevamo».  

Dopo 25 anni insieme, vi sentite cambiati? 
«Il fatto di mai ripetere la formula del disco precedente è sempre stato un punto d’orgoglio, anche se era stato un album di successo. In qualche modo ci siamo abituati, e pian piano ci hanno fatto l’abitudine anche i nostri fan, a ricevere sempre un nuovo album diverso. Ad esempio “L’uomo sogna di volare” fu accolto da commenti non proprio entusiasti, del tipo “cosa si sono fumati questi”. Però poi è diventato un album pieno di classici. Ed è una cosa che si è ripetuta per tutta la nostra carriera. Forse è anche per questo che è stata così lunga, perché siamo riusciti a rinnovarci continuamente». 

Nei vostri brani nascono prima le parole o la musica?
«Sempre prima la musica. Sono rarissimi i casi in cui avviene il contrario. Personalmente l’ho fatto solo una volta, perché avevo l’emergenza di comunicare una cosa in particolare, e quindi cominciai a scrivere. Poi mi sono ritrovato col problema di musicare quello che avevo scritto, e di conseguenza venne fuori una cosa un po’ rappata. Essendo una band ci sentiamo più completi nel momento in cui componiamo tutti insieme. Poi registriamo qualsiasi cosa, e in seguito selezioniamo le musiche migliori. Infine scriviamo le parole». 

Qual è lo stato di salute del rock italiano? 
«Al momento il rock è assente, e si ha pudore anche a nominarlo, perché siamo stati invasi da un modo di fare musica che è completamente digitale e sintetico. È un momento avvilente se non preoccupante: c’è pochissima creatività, una grandissima standardizzazione, migliaia di nomi che fanno milioni di ascolti, che poi quasi sempre spariscono. Anche la musica pop sta perdendo numeri. È una questione quasi antropologica e sociologica: il fatto che la tecnologia ci dia la possibilità di accedere gratuitamente alla musica, e che gli adolescenti abbiano più tempo a disposizione per usufruirne, fa sì che l’attenzione si sposti attorno ai nativi digitali. Questi ultimi hanno imparato a fare musica anche senza saper suonare uno strumento, ma sapendo utilizzare bene un computer. In questo modo si è arrivati ad avere dei generi musicali creati schiacciando dei tasti di plastica. Il pubblico è fatto soprattutto di gente che l’altro ieri guardava i cartoni animati, e oggi ci ritroviamo ad ascoltare la musica dei Teletubbies. Per chi ama la musica è una situazione culturalmente preoccupante».  

Dunque bisogna rassegnarsi? 
«Anche negli anni ‘80 si pensava che un certo tipo di musica potesse scomparire, con l’arrivo dei sintetizzatori, ma poi è tornata la scena grunge. O è un momento di passaggio, o di decadimento. Vedremo…»

Sei un artista a tutto tondo: scrivi, suoni, disegni… come sono nate queste tue passioni? 
«Per quanto riguarda la musica sono un autodidatta, e non ho mai preso una lezione. Per dare l’esame della SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori), ho dovuto chiedere a mia moglie che ha studiato pianoforte per capire come si leggeva un pentagramma. Per me l’arte è cibarmi dell’estasi, dell’espressività dell’uomo, lo stupore della bellezza, sia che si tratti di letteratura, di cinema, di fotografia. Nel momento in cui vedo qualcosa che è bello mi viene subito la voglia, quasi autisticamente, di fare anche io lo stesso. Mi ritrovo a riempire quaderni su quaderni con materiale scritto, disegni, ecc. 

Lo fai per te o per mostrarla agli altri? 
«No, non sono pensate per un pubblico. Fin da piccolo sono sempre stati gli altri a chiamarmi, ad esempio per entrare in questa o quella band, perché io stavo facendo il mio percorso personale. Essendo un secondogenito non tendo ad essere un leader. Lo stesso è accaduto quando ho scritto il libro, non ne avevo nessuna intenzione. Semplicemente eravamo in promozione con un album e ci diedero due pagine al mese sulla rivista “Rockstar” per dire quello che volevamo, e a due giorni dalla pubblicazione del numero nessuno aveva ancora scritto nulla. Allora mandai una delle pagine dei miei diari, e la Mondadori, dopo aver letto il pezzo, mi chiese se avevo materiale per fare un libro. La mia vita è sempre andata così».

In 25 anni vi sarà capitato di non andare d’accordo. Come siete riusciti a rimanere uniti? 
«Sicuramente i viaggi che facciamo per comporre ci hanno sempre aiutati ad uscire dalla routine, a stemperare le tensioni e a vivere dei momenti simili a quelli di quando si andava in gita a scuola, in cui tutto è bello ed è facile rimanere impressionati dalle cose belle. Anche se ci sono state delle tensioni, ci sono stati anche dei momenti per pensare che questo staff aveva i numeri per farcela». 

 

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