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CANTONEDa Dylan a Mercury, passando per McCartney: Jacky Marti si racconta

20.11.18 - 06:01
Ecco “Il colore degli incontri”: oltre 200 Vip raccontati dal giornalista, papà di Estival Jazz
Marco D'Anna
Miriam Makeba
Miriam Makeba
Da Dylan a Mercury, passando per McCartney: Jacky Marti si racconta
Ecco “Il colore degli incontri”: oltre 200 Vip raccontati dal giornalista, papà di Estival Jazz

LUGANO – Da Paul McCartney a Mina, da Ella Fitzgerald a Miriam Makeba. Da Charlie Chaplin a Dario Argento, passando per Freddie Mercury e Van Morrison. Si chiama “Il colore degli incontri” (Fontana Edizioni) ed è il volume che racchiude le emozioni di Jacky Marti, 69 anni, giornalista, voce storica della Rsi, papà di Rete 3 e di Estival Jazz, di fronte a oltre 200 Vip. Un lungo percorso, contraddistinto da mille sfumature. Un libro che, attraverso splendide immagini d’epoca, racconta (anche) di miti e di tempi che non ci sono più.
 
Jacky Marti, qual è il personaggio internazionale che assolutamente si porta nel cuore?
«Forse Solomon Burke, il re del Rock n’Soul. È morto nel 2010 e mi ha scritto ancora su Facebook qualche giorno prima di andarsene. Con lui avevo un rapporto quasi di amicizia. Era un omone enorme, per viaggiare in aereo occupava sempre due posti. Aveva 21 figli e 90 nipoti». 

C’è qualcuno che, invece, le suscita distacco?
«Van Morrison, un maleducato. Quando è arrivato a Lugano ha preteso champagne e cracker “speciali”. Abbiamo dovuto farli arrivare dall’America e glieli abbiamo messi nel camerino. Ha fatto i capricci, per poi nemmeno toccarli. Ha suonato e se ne è andato senza salutare».  

Tra le star di cui parla, c’è anche un certo Freddie Mercury…
«L’ho conosciuto a Montreux. Non era ancora famoso, come leader dei Queen. Con lui ho giocato a dadi e freccette. Era un grande appassionato di hockey e mi disse che un giorno sarebbe venuto in Ticino a vedere il derby. Non mi stava particolarmente simpatico. Avevo legato di più col suo batterista. A Freddie Mercury, tuttavia, è legato un aneddoto curioso». 

Quale?
«Una volta, quando era già morto, mi recai in viaggio a Zanzibar, con la mia famiglia. Zanzibar è il luogo in cui Freddie Mercury è nato. Mi aspettavo un mausoleo davanti a casa sua. Invece no. Bianco, non musulmano, gay, morto di aids. La gente del posto quasi si vergognava di lui».

E che mi dice di Mina, invece?
«Mio figlio giocava a pallone con suo nipote, negli allievi del Rapid. Donna dotata di una grande carica umana, assolutamente alla mano, a volte con un linguaggio molto “terre à terre”, veniva a Besso a registrare i suoi dischi. In Ticino l’abbiamo sempre lasciata in pace».
 
Parliamo di Jimi Hendrix?
«Con lui ci fu un incontro fugace, a Milano. Strano. Me lo ricordo fragilissimo, avevo l’impressione che se avessi soffiato sarebbe volato via».
 
Da giovane cronista chi sognava di intervistare?
«Bob Dylan. È sempre stato il mio pallino. L’ho incontrato più volte. Ha un caratteraccio. È chiuso, scontroso, poco comunicativo. Non ha mai voluto farsi fotografare con me. Però, una volta, un fotografo del Blick mi immortalò per caso da parte a lui. E finii sul giornale col mio idolo». 

Non le ha mai dato fastidio avere a che fare, a volte, con gente tanto spocchiosa?
«Io le capivo queste persone. Bob Dylan non aveva un attimo di privacy da quando aveva 17 anni. In fondo quelle che chiamiamo Vip sono persone come noi. Hanno solo avuto una forte tenacia nell’inseguire un sogno, sacrificando tutto il resto. Dettaglio che a lungo andare può logorare».

Nel suo libro si racconta anche l’incontro con Paul McCartney, leggenda dei Beatles…
«I Beatles si erano appena sciolti. Lo incontrai a Montreux, la mia seconda casa. Sembrava inavvicinabile. C’era una vera isteria per lui. Gli dissi che venivo dalla Svizzera italiana, ma lui era così “fatto” che si confuse con l’Italia. Si mise a cantare “Volare” e “O sole mio”, tutto sudato».  

Max Frisch, Enzo Biagi, Max Horkheimer, Friedrich Pollock. Lei parla anche di incontri con importanti personaggi del mondo intellettuale…
«E tra gli aneddoti curiosi, ricordo di avere fatto il “palo” per Eugenio Montale, nella sua casa di Milano, mentre lui si scolava la grappa. Era il 1975, aveva appena vinto il Nobel per la letteratura. Mi disse: “Ragazzo svizzero, portami la bottiglia e poi piazzati lì. E avvisami se intravedi la domestica. Perché se mi vede bere, mi sgrida».

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