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COLOMBIA/CANTONEAl Buskers con i Meridian Brothers

20.07.18 - 06:01
Questa sera a Lugano, nell'ambito del Buskers di LongLake, avremo modo di assistere alla performance del combo colombiano
FOTO Juan Camilo Montañez
Da sinistra César Quevedo, Alejandro Forero, María Valencia, Mauricio Ramirez Echeverri, Eblis Alvarez.
Da sinistra César Quevedo, Alejandro Forero, María Valencia, Mauricio Ramirez Echeverri, Eblis Alvarez.
Al Buskers con i Meridian Brothers
Questa sera a Lugano, nell'ambito del Buskers di LongLake, avremo modo di assistere alla performance del combo colombiano

BOGOTÀ/LUGANO - In attesa del live, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Eblis Alvarez (voce, chitarra), colui alla guida del progetto. Un progetto nato sul finire degli anni Novanta, dedito alla sperimentazione sonora e in grado di amalgamare tradizione - con l’utilizzo di ritmi latini e strumentazione acustica -, psichedelia e strutture di matrice electro.

Eblis, hai dato vita al progetto Meridian Brothers nel 1998. Per qualche tempo ne sei stato l’unico componente. Raccontami dell’inizio, dei tuoi ascolti dell'epoca…

«Meridian Brothers era un laboratorio personale, un laboratorio personale del suono. In quel periodo studiavo chitarra classica e composizione contemporanea. Il laboratorio, diciamo, mirava alla ricerca di questi elementi all’interno della musica popolare. I miei ascolti, gli ascolti che maggiormente mi influenzavano, erano orientati prevalentemente al rock argentino, alla musica pop, all’elettronica, al punk. A un certo punto, grazie ad alcuni compagni di università, ho avuto modo di entrare in contatto con la musica e la strumentazione tradizionale. In questo caso, alla base delle mie maggiori influenze citerei i Curupira, di Bogotà. Dopodiché, ai miei brani ho iniziato ad aggregare il vallenato - un genere molto ascoltato da mio padre -, la cumbia e altri stili colombiani».

A un certo punto della tua vita hai lasciato la Colombia alla volta della Danimarca, dove hai vissuto per un po'. Cosa hai scoperto in Europa?

«Il modello di vita occidentale - più organizzato - che mi ha consentito di accedere con più facilità all’apprendimento di nuove tecniche musicali e sonore. Ma, soprattutto, ho avuto modo di osservare me stesso e il mio background dall’esterno. Ne è valsa davvero la pena».

Al tuo ritorno, poi, come hai ritrovato la scena musicale colombiana?

«A Bogotà era molto attiva, si stava risvegliando: concerti, feste, collaborazioni, nuove etichette indipendenti. Molti giovani - tra i 20 e i 30 anni - seguivano con passione tutto ciò accadeva nel contesto underground. Per la scena di Bogotà, direi che molto importante in quel periodo è stata la combinazione di strumenti e generi moderni con i linguaggi tradizionali. Anche la musica sperimentale si stava trasformando, come dire, in qualcosa di solido e di molto popolare per un certo tipo di pubblico...».

Quando il progetto si è trasformato in una band?

«Nel 2007, nel periodo in cui ho iniziato a lavorare con alcuni ex compagni di università: María Valencia (sax, clarinetto, percussioni), Alejandro Forero (tastiere), César Quevedo (basso) e, infine, Damián Ponce (batteria), sostituito, successivamente, da Mauricio Ramirez Echeverri. L'obiettivo era mettere a punto anche dal vivo le medesime sperimentazioni costruite in studio».

Come si lavora all'amalgama di diversi stili musicali?

«Nei primi dischi procedevo ad intuizioni. Prendevo i frammento e li aggregavo l'uno all'altro in continuazione. Gli ultimi - e i prossimi, direi - sono e saranno sempre più orientati verso un concetto preciso, specifico. Che dall’esterno potrebbe venire percepito come un mix, ma che in realtà non lo è».

Come e quando è iniziata la tua collaborazione con l’etichetta britannica Soundway?

«Dopo avere ascoltato il mio contributo nel primo album - omonimo (Soundway, 2012) - del progetto Ondatrópica (ossia Will Holland e Mario Galeano), la label si è interessata al mio lavoro...».

Nel 2015 hai pubblicato “Los Suicidas”, la prima parte di una trilogia. Quando prevedi l’uscita dei due capitoli successivi?

«Inizialmente, “Los Suicidas” doveva essere la prima parte di una trilogia con soggetti a tema. Ma per i media il disco è stato il primo di una “trilogia organistica”. Non so ancora come sarà impostato e assemblato, ma di sicuro il secondo album arriverà sul mercato nei prossimi anni...».

Che vuoi dirmi dell'ultimo album “¿Dónde Estás María?” (Soundway, 2017)?

«Ho lavorato sul disco tra il 2016 e il 2017. Beh, ci sono un sacco di cose da dire, ma la più importante si colloca nel fatto che alla base di ogni brano figurano strutture realizzate con strumenti a corda. Gli altri elementi sono stati applicati su di esse in seconda battuta. Oggi, rispetto allo scorso mese di settembre, quando è uscito, lo vedo come un lavoro multidirezionale; prima avevo l'impressione che, in termini stilistici, fosse molto più circoscritto...».

Perché questo titolo?

«È semplicemente il titolo della prima canzone, che è una sorta di storia d'amore in chiave ironica».

Prima di concludere, dimmi degli altri testi...

«Diciamo che da questo punto di vista la produzione dei Meridian Brothers si diversifica molto. Ciò che cerco di evitare è che questioni e faccende personali finiscano all'interno delle strofe...».

 

 

 

 

 

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