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Mogwai, viaggio nell'infinito sonico del post-rock

REGNO UNITO/CANTONEMogwai, viaggio nell'infinito sonico del post-rock

06.07.18 - 06:01
In attesa di vedere i Mogwai - nella loro unica data elvetica del tour europeo - sul palco del Roam di LongLake, al Ciani di Lugano il prossimo 28 luglio, abbiamo parlato con Barry Burns (chitarra)
FOTO ANTONY CROOK
I Mogwai: da sinistra Stuart Braithwaite, Martin Bulloch, Barry Burns, Dominic Aitchison.
I Mogwai: da sinistra Stuart Braithwaite, Martin Bulloch, Barry Burns, Dominic Aitchison.
Mogwai, viaggio nell'infinito sonico del post-rock
In attesa di vedere i Mogwai - nella loro unica data elvetica del tour europeo - sul palco del Roam di LongLake, al Ciani di Lugano il prossimo 28 luglio, abbiamo parlato con Barry Burns (chitarra)

GLASGOW/LUGANO - Reduce dalla realizzazione dell’ultimo album - il nono in studio, “Every Country’s Sun” (Rock Action, 1. settembre 2017) - il combo scozzese - guida assoluta nell’infinito sonico del post-rock - tra tre settimane per la prima volta farà tappa in Ticino. Un appuntamento di massimo rilievo per il Roam, per il LongLake, per la Città di Lugano, così come per l’intera Svizzera italiana.

Mercoledì in tarda mattinata abbiamo raggiunto al telefono Burns, che attualmente condivide la line-up del gruppo con Stuart Braithwaite (chitarra, voce), Dominic Aitchison (basso) e Martin Bulloch (batteria).

Barry, dove ti trovi?

«A Glasgow, a casa di mia madre. Tra poco tornerò a Berlino. Vivo lì da otto anni».

Anche Stuart, Dominic e Martin vivono da quelle parti?

«No, tuttora in Scozia, a Glasgow e dintorni…».

Perché la scelta di trasferirti a Berlino?

«Amo entrambe le città. Ma sentivo la necessità di dover cambiare».

Che vuoi dirmi del processo di lavorazione di “Every Country’s Sun”?

«Abbiamo lavorato su questa produzione con il medesimo metodo utilizzato nei dischi precedenti. Nella prima fase ognuno di noi, individualmente, ritaglia e ricuce le proprie idee. Dopodiché, ci ritroviamo tutti e quattro in sala prove, a Glasgow, normalmente per una o due settimane, per elaborarle, per amalgamarle. Poi si va in studio. Fino al momento in cui non ascoltiamo il mix finale, non sappiamo ciò che verrà fuori… Anche “Every Country’s Sun” ha preso forma in questo modo».

Dimmi delle registrazioni…

«Si sono svolte - in due settimane sul finire del 2016 - a Buffalo, ai Tarbox Road Studios di Dave Fridmann. Dove siamo tornati anche per il missaggio, durato altre due settimane, a gennaio 2017…».

Perché la decisione di riaffidarvi a Fridmann dopo tanti anni?

«Credo che di tanto in tanto per una band sia opportuno cambiare o per lo meno alternare i produttori. E Dave per noi è uno di famiglia...».

Raccontami del titolo dell’album...

«Non è frutto di riflessioni. È venuto fuori così, scherzando, credo. Non ricordo esattamente. Forse eravamo persino ubriachi. Per noi non ha un significato specifico o particolare. Può averlo per qualcun altro, certo. Come per qualcun altro possono avere un significato i titoli delle altre dieci composizioni che completano la tracklist...».

Quali, secondo te, le maggiori influenze confluite nel disco?

«Abbiamo guardato e riguardato decine di film, per cui...».

Qualche titolo?

«Ci siamo focalizzati prevalentemente sulle pellicole di John Carpenter che, come sai, è anche l’artefice di buona parte delle rispettive colonne sonore...».

Oltre a Carpenter, quali gli altri tuoi ascolti di quel periodo?

«Fammi pensare… I Boards Of Canada…».

Avete lavorato alle musiche di “Kin”, una pellicola diretta da Jonathan e Josh Baker in uscita nelle sale americane il 31 agosto. Non è la vostra prima colonna sonora...

«È però la prima per un film di fantascienza hollywoodiano... Un progetto molto stimolante, devo dire...».

Prima di concludere… Siete già stati da queste parti?

«Sì. Tempo fa eravamo in viaggio e ci siamo fermati a Lugano per alcune ore... È bellissima…».

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