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CANTONE«Ecco com'era il mio amico Fabrizio De Andrè»

07.03.17 - 06:00
Il 14 marzo alle 20 il Palazzo dei Congressi di Lugano ospiterà il concerto-omaggio a Fabrizio De Andrè “Faber per sempre”. Alla guida del progetto Pier Michelatti, storico bassista del cantautore
Keystone
Fabrizio De Andrè.
Fabrizio De Andrè.
«Ecco com'era il mio amico Fabrizio De Andrè»
Il 14 marzo alle 20 il Palazzo dei Congressi di Lugano ospiterà il concerto-omaggio a Fabrizio De Andrè “Faber per sempre”. Alla guida del progetto Pier Michelatti, storico bassista del cantautore

LUGANO - Quello a cui avremo modo di assistere tra pochi giorni non sarà un semplice tributo: l’opera di De Andrè verrà riproposta da chi con lui ha condiviso palchi e studi registrazione per anni e anni: con Michelatti in prima linea - che racconterà anche aneddoti di vita accanto a Faber - al Palacongressi vedremo Ivan Appino (voce, chitarra), Paolo Guercio (pianoforte, tastiere, fisarmonica), Maurizio Verna (chitarre), Roberta Malerba (voce), Anais Drago (violino) e Alessandro Cristilli (batteria, percussioni).

Pier, raccontami del tuo primo incontro con Fabrizio De Andrè...

«Nel 1981, portati a termine gli studi al conservatorio, mi ero dato un periodo di prova: se entro cinque o sei anni con la musica non avessi concluso nulla, sarei tornato a Vercelli a fare il geometra. Un giorno, poi, ero in studio a Milano con Massimo Bubola per le registrazioni di “Tre rose” (Fado, 1981), un album prodotto da Fabrizio. Fabrizio, che, d’un tratto, arrivò in sala di incisione. Ascoltò attentamente me e il batterista, e subito dopo mi propose di prendere parte alle sessioni del disco che aveva in cantiere...».

Che tipo era?

«Spesso la gente immagina che fosse introverso, chiuso... Devo ammettere che anch’io, prima di conoscerlo, mi ero fatto questa idea… Invece, aveva un grande senso dello humor… Insieme ci facevamo delle grasse risate... E poi era generoso, non solo materialmente: quando parlavi con lui ti faceva riflettere...».  

Il disco di cui parlavi poco fa è l’omonimo del 1981, meglio conosciuto come “L’indiano”: com’era Faber in studio?

«Pignolo, molto pignolo. Calcola che magari stavamo sulla stessa base per due giorni interi…».

E sul palco?

«Uguale. Ricordo, ad esempio, che prima di partire in tournée nel 1996 ci fece provare “Il testamento di Tito” per tre giorni… L’unico che riusciva a bloccarlo quando esagerava era Mauro Pagani, di cui si fidava ciecamente...».

Quali i suoi insegnamenti, di cui farai sempre tesoro?

«Aveva delle straordinarie capacità di analisi e di sintesi: con quattro o cinque parole esprimeva un concetto. Poi, guardava la vita attraverso più punti di vista: osservandola da una sola angolazione, d’altra parte, resti relegato a una sola idea… Tutto questo, nel corso degli anni, ho tentato di metterlo nel mio bagaglio...».

Avete mai avuto discussioni?

«Sì, una volta. Durante un concerto, a cui stavano assistendo quindicimila persone, mi disse - in malo modo e non allontanandosi abbastanza dal microfono - di abbassare il volume del basso... Anche se quel disturbo che sentivamo sul palco proveniva da un tamburo della batteria... Il giorno dopo, a modo suo, mi chiese scusa...».

Quando vi siete sentiti l'ultima volta?

«Nella tarda estate del 1998 ero in tour con Fiorella Mannoia, lo chiamai e  mi disse: «Stasera non salirò sul palco… Sono appena rientrato dal pronto soccorso... Non mi sento tanto bene...». Calcola che fumava cento sigarette al giorno… Da lì non ha mai più tenuto concerti e io non l’ho mai più visto, né sentito: negli ultimi tempi, quando stava molto male, non voleva farsi vedere da nessuno...».

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