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CANTONEStefano Ferrari: «Vi spiego come si vive in un campo profughi»

12.12.16 - 08:00
Abbiamo incontrato il regista ticinese Stefano Ferrari durante la giornata di Harraga – Vite in Fuga, svoltasi lo scorso 3 dicembre al Cinema Lux di Massagno
Stefano Ferrari: «Vi spiego come si vive in un campo profughi»
Abbiamo incontrato il regista ticinese Stefano Ferrari durante la giornata di Harraga – Vite in Fuga, svoltasi lo scorso 3 dicembre al Cinema Lux di Massagno

Stefano è stato ospite della rassegna per portare la sua testimonianza riguardo al movimento migratorio che stiamo vivendo in questo periodo. La prossima primavera uscirà il suo nuovo documentario, “Idomeni, welcome to Europe”.

Stefano, quando hai capito che “da grande” avresti raccontato storie di vita vissuta attraverso la tua videocamera?

Avevo 15 anni e un giorno la mia vita è cambiata: sul mio classatore c’era un adesivo di una bandiera italiana - i miei genitori sono entrambi italiani - e, rientrato dalla ricreazione, ho ritrovato il classatore imbrattato in maniera offensiva e pesante. Quelle parole contro l’Italia e contro gli italiani mi hanno davvero colpito e in quegli istanti ho sentito qualcosa. C’erano delle voci, c’erano delle storie che avrei voluto raccontare, e questa mia sofferenza, che al momento non sapevo come esprimere, ho tentato di raccontarla con una piccola Super 8 realizzando delle immagini mute su questo classatore. Con il tempo ho capito che quella è stata la scintilla.

Esiste un confine tra fiction e storia vera?

Credo che si possano mescolare finzione e realtà, perché anche con la finzione si possono riportare a galla storie del passato (non documentate con una videocamera). Sono un amante del documentario "artigianale" perché il mio grande maestro, il regista Luciano Berini, mi aveva minacciato quando volevo fare finzione, dicendomi: «Non provarci, perché ci sono 7 miliardi di abitanti nel mondo e almeno 7 miliardi di storie da raccontare. Non perdere tempo a fare fiction!».

Sei stato a Idomeni, in Grecia, nell’ormai ex campo profughi più grande d’Europa. L’anno prossimo uscirà il tuo nuovo documentario frutto di questo viaggio: cosa ti ha lasciato questa esperienza?

La prima cosa che mi viene in mente è un incontro: erano le 23 ed ero lì, nella tendopoli. Mi si è avvicinato un uomo con un bambino per mano: era preoccupato per me perché ero solo e vedeva che non avevo una tenda in cui dormire. Così, mi ha invitato a mangiare con loro: ha cucinato del riso, lungo i binari che attraversavano la tendopoli. Mentre stavamo mangiando mi ha offerto una scatoletta di tonno, e subito ho capito che quella scatoletta era l'unica in suo possesso e che l'avrebbe usata solo per occasioni speciali... Poi, sapendo che non avevo un posto dove dormire, mi ha invitato a passare la notte con lui e il figlio, offrendomi l’unico materassino che aveva e la sua giacca da utilizzare come cuscino. Mi ha colpito la sua dignità, la dignità di un popolo che nel silenzio continua a mantenere un’umanità eccezionale. Nel documentario voglio mostrare questo: voglio dimostrare che questa gente merita la nostra attenzione. Sono stato colpito, comunque, soprattutto la mattina seguente: ho lasciato a quell'uomo 50 euro e lui, a tutti i costi, me ne ha voluti restituire 40, dicendomi che era troppo... 

Oggi, con che occhi guardi al modo di fruire le immagini?

Sono molto preoccupato per l’iperstimolazione che abbiamo al giorno d'oggi, e questo fa sì che serve quel momento per concentrarsi e vivere un’esperienza. Preferisco fare delle serate in cui si vede il documentario piuttosto che fornirlo a molte più persone tramite internet: credo sia un’esperienza da fare insieme per condividere il momento in una sala buia. So di andare controcorrente, ma credo molto nel "monotasking". Non credo nel "multitasking". Credo che ci si debba fermare ed immergersi in un’esperienza.  Vedo un bombardamento di input che ci rende sempre più assuefatti. Come uscirne, non saprei, ma credo che il film vada sempre più accompagnato o visto insieme ad altri per farne un’esperienza comune. Mi spaventa la fruizione sul web. So che porterò il nuovo documentario nelle nuove tendopoli allestite in Grecia nei magazzini industriali abbandonati: proietteremo la pellicola su delle lenzuola matrimoniali come se fossero un grande schermo.

Con il documentario che messaggio vuoi far passare?

Mi piacerebbe riuscire a portare idealmente sotto queste tende lo spettatore. Quando ho presentato il mio primo documentario sui profughi, “Lo stesso mare”, ho portato la gente in palestra dicendo di munirsi di una coperta e di un cuscino perché il film l’avremmo visto sul soffitto.  Ho tentato far capire al pubblico cosa significa vivere in una tendopoli ed essere l'uno accanto all'altro: tu, magari, vorresti intimità o solitudine, però, ti giri, e intorno a te hai 100-200 persone. Vorrei trasformare questa percezione in consapevolezza e, magari, azione. Vorrei cercare di andare oltre la facile verità che possiamo ottenere dai mezzi di informazione. Altrimenti rimaniamo fermi.

 

 

 

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