Il racconto di un padre che gioca, visto con gli occhi della figlia
LUGANO - Tutte le sere ad aspettarlo sul divano. E non si poteva nemmeno iniziare a sedersi a tavola e mangiare. «Bisogna aspettare papà per cenare», diceva mamma. E io e mia sorella Giulia ad aspettare…ma ad aspettare cosa, poi? Appena papà entrava a casa, non erano sorrisi, non erano saluti, come nelle famiglie dei miei compagni di classe, «Ciao, come stai? Come è andata a scuola?». No. Erano silenzi, musi lunghi, senza capire perché.
E quando le giornate erano proprio storte, c’erano i litigi tra mamma e papà: «Ancora, Patrizio? Ma non ti rendi conto? Non abbiamo quasi più i soldi per mangiare. Io non ce la faccio più...». Ma nessuno a me, che avevo quattordici anni, diceva nulla.
Mamma e papà pensavano che non avessi capito nulla, la mamma cercava di far finta di nulla, faceva come se le cose andassero bene, ad ogni mia domanda cambiava discorso; papà invece, stava sempre zitto, non diceva nulla, era quasi sempre con la testa altrove….
Non era sempre stato così. Eravamo una famiglia normale, una volta. Finchè... Mamma e papà pensano che io e Giulia non abbiamo capito, ma noi abbiamo capito, anche se non ce lo diciamo. Io ho capito e penso che anche mia sorella, anche se è un po’ più piccolina di me, abbia capito.
Papà butta troppi soldi nelle macchinette. Io ne ho parlato con la psicologa che c’è a scuola, che mi ha spiegato che è una malattia e che si può guarire. Ci vuole l’impegno di tutta la famiglia e l’aiuto di specialisti.
Stasera ho deciso di parlarne con mamma. Dobbiamo tutti insieme fare qualcosa perché dalle malattie si può guarire e io rivoglio il mio papà a casa, la mia mamma sorridente e una cena in famiglia dove si può tornare a raccontare quanto ci succede nella vita di tutti i giorni.