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ITALIALa strage di Capaci, trent'anni di buchi neri

23.05.22 - 07:30
Il 23 maggio 1992 moriva Giovanni Falcone, ucciso con la moglie e gli agenti della scorta in un attentato da Cosa nostra
Imago / Screenshot
Il cratere di Capaci e alcune delle prime pagine dei quotidiani italiani del 24 maggio 1992.
Il cratere di Capaci e alcune delle prime pagine dei quotidiani italiani del 24 maggio 1992.
La strage di Capaci, trent'anni di buchi neri
Il 23 maggio 1992 moriva Giovanni Falcone, ucciso con la moglie e gli agenti della scorta in un attentato da Cosa nostra
L'attentatuni, come verrà chiamato da alcuni mafiosi, cambia la storia d'Italia. E dopo trent'anni, alcune domande ancora non trovano risposta. È stata solo la mafia? E perché Falcone fu ucciso in quel modo tanto eclatante?

PALERMO - «Ma è solo mafia, questa?» La domanda è ancora lì, intatta, così come la pronunciò dallo scranno più alto dell’aula di Montecitorio, all’indomani della strage di Capaci, Oscar Luigi Scalfaro, che ventiquattro ore dopo sarebbe stato eletto presidente della Repubblica. Trent’anni dopo, la risposta è ancora una primula rossa.

Il 23 maggio del 1992 era un sabato. Quel pomeriggio, tre Fiat Croma blindate correvano a gran velocità sul tratto dell’autostrada A29 in direzione di Palermo. Avevano appena prelevato il giudice Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, magistrata anche lei, all’aeroporto di Punta Raisi. Un fine settimana da "turisti" a casa, per festeggiare, con qualche giorno di ritardo, anche il compleanno del magistrato. Ma non andrà così.

Di quell'apocalisse conosciamo l'esatto istante in cui scoppia: le 17, 57 minuti e 48 secondi. I sismografi della stazione agrigentina dell’Istituto nazionale di geofisica, sul Monte Cammarata, immortalano e fissano il suo contorno. Come un terremoto. Di quelli che squarciano la storia. Che decidono che ci sarà un prima e un dopo.

L'attentatuni
Il segnale parte da una collinetta sopra l'autostrada. Ad abbassare la levetta del telecomando è il boss Giovanni Brusca. L'asfalto viene sventrato. L’auto alla testa al corteo viene travolta in pieno dall’esplosione e proiettata a una cinquantina di metri dalla carreggiata.  Accartocciata, sarà ritrovata in mezzo a un oliveto. I tre agenti della scorta - Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - muoiono all’istante.

La Croma bianca guidata da Falcone - con la moglie, che per lenire il mal d’auto di cui soffriva si era seduta davanti, e l’agente Giuseppe Costanza sul sedile posteriore - si schianta invece contro la lingua di detriti che l’afflato di quei 500 chili di tritolo, stipati in un cunicolo al di sotto del manto stradale, ha improvvisamente sollevato. Ma sono ancora tutti vivi.

I primi ad arrivare sulla scena racconteranno che il magistrato «chiedeva aiuto con gli occhi». Ma non riusciva a parlare. Sono ormai in condizioni disperate quando arrivano in ospedale. Giovanni Falcone muore alle 19.05. I suoi ultimi respiri vengono raccolti tra le braccia dell’amico e collega Paolo Borsellino. Le ultime parole pronunciate da Francesca Morvillo sono per suo marito. «Dov’è Giovanni?». Lei si spegne poche ore dopo, intorno alle 22, mentre si trova in sala operatoria. Sopravvive, per miracolo, solo Giuseppe Costanza.

Voragini nell'asfalto e nella storia
Cosa nostra ci ha messo la manodopera e le intenzioni. Lo confermeranno tempo dopo le sentenze dei processi. Il Capaci uno e il Capaci bis. Ma le prime "sentenze" sono quelle che compaiono il 24 maggio a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali. «Orrore, ucciso Falcone. Come dalla Chiesa: la mafia colpisce il candidato alla superprocura», titolava il Corriere della Sera. La Stampa: «Falcone ammazzato dalla mafia». La copertina di Repubblica: «Falcone assassinato. Strage di mafia». E il Messaggero con «Attentato a Falcone, è strage. Terrificante agguato della mafia». E infine «Falcone assassinato» sull'Unità; che aggiunge: «Tra i boss di Cosa nostra e lo Stato ormai è guerra totale». Sulla mano non ci sono mai stati dubbi.

Ma quella delle stragi, che ha in quel 23 maggio di trent'anni fa la sua triste alba, è soprattutto una stagione di buchi neri e di voragini. Tanto nell'asfalto quanto nella storia della vicina Penisola. Con tasselli sporchi di sangue e altri che sono tuttora introvabili. Una stagione terribile, in cui schemi e vecchi equilibri politici erano del tutto saltati. In cui poteva succedere «la qualunque», per citare l'amara previsione che lo stesso Falcone pronunciò dopo il delitto del democristiano Salvo Lima, avvenuto solo poco più di due mesi prima. Un delitto impensabile. Perché, come scrisse sull'Unità Saverio Lodato il 13 marzo 1992, «se c'era un uomo politico del quale i palermitani avrebbero giurato che sarebbe morto nel suo letto, questo era Salvo Lima»; la longa mano andreottiana sulla Sicilia. Un intoccabile, fino a quel 12 marzo. E così «la qualunque» accadde.

Il «software» della strage
Su Capaci si stagliano le stesse ombre che si faranno ancora più palesi, seppur restando altrettanto inafferrabili, 57 giorni dopo con la strage di Via D'Amelio. I processi, le sentenze e le condanne hanno fatto luce solo sull'anello criminale dell'attentato di Capaci, senza risalire la catena. L'anello operativo. «L'hardware», come lo ha descritto l'ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, nel podcast "Mattanza" sulle stragi curato dal Fatto Quotidiano.

«Alla fine del ’91 vi sono delle riunioni (a Enna, ndr.) tra alcuni capimafia, che hanno la caratteristica di essere tutti massoni. Si comincia a discutere di un progetto molto complesso, che era stato suggerito dall’esterno. Le entità esterne ci mettono il software, il progetto politico, Cosa nostra ci mette l’hardware, il braccio militare». E il codice sorgente di questo software a oggi non è mai stato identificato.

Quali fossero questi apparati esterni ancora non lo sappiamo. Quelle «menti raffinatissime», che il giudice Falcone aveva evocato già dopo il fallito attentato del 1989 all'Addaura, trent'anni dopo sono rimaste praticamente prive di un volto. Non sono spuntate dalle sentenze né sono riemerse dai liquami della trattativa tra Stato e Cosa nostra, affiorati alla superficie attraverso le voragini scavate, in Sicilia prima e poi nel resto d'Italia, dalle bombe del 1992 e del 1993.

Perché proprio a Capaci?
Ma c'è un'altra grande domanda, tuttora senza risposta. Nel 1992 Giovanni Falcone dirigeva la sezione Affari Penali dell'allora Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma. E nella capitale italiana la Cupola corleonese aveva inviato un commando di killer con l'ordine di mettere in piedi un piano per far fuori il giudice. Perché all'improvviso il Capo dei capi, Salvatore Riina, blocca l'operazione e decidono di ucciderlo a Capaci? E di farlo in quel modo così eclatante? Come detto, non lo sappiamo. Ma sarebbe questo lo snodo. Il momento a partire dal quale, come rivelò anche il pentito Gaspare Spatuzza, «non c'è solo mafia».

È un altro buco nero. Uno dei tanti, che trent'anni di storia non sono riusciti mai a illuminare. Pochi devono essere invece quelli che sanno che cosa contiene. Uno di questi è un fantasma, di cui si è persa ogni traccia dall'estate del 1993. Matteo Messina Denaro, rampollo della famiglia mafiosa di Castelvetrano e pupillo di Riina, faceva parte di quel commando inviato a Roma. Oggi è l'ultimo super latitante di quella Cosa nostra che aprì un fronte di guerra totale, fatto di bombe, attentati e terrore, con lo Stato italiano. Il depositario di quei segreti.

L'ultimo tassello criminale di quel mosaico stragista. Quello che consentirebbe di chiudere un cerchio. Ma il quadro a quel punto potrebbe dirsi completo?

La voce dei fantasmi
Ciò che Messina Denaro conosce, lo sapevano, ovviamente, Riina e Bernardo Provenzano. Lo conosce con ogni probabilità Leoluca Bagarella. E lo sanno anche i Graviano. Ma «i padrini non si sono mai pentiti», come ha ricordato il giornalista Michele Santoro in un'intervista a tio.ch/20minuti. «Non esiste un Santapaola che si pente, un Graviano che si pente, un Riina che si pente o un Provenzano che si pente. Non è mai avvenuta una cosa del genere». Difficile dunque pensare che, se mai lo prenderanno, questo possa accadere con Messina Denaro. Che in ogni caso non è il solo fantasma in questa oscura vicenda.

Ce ne sono altri, ancora più elusivi e misteriosi. Perché di loro non si conoscono né il nome né i lineamenti. Ma che più volte sono stati invocati. Dal già presidente del Senato ed ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Dal giudice Nino Di Matteo. E da Salvatore Borsellino, attivista e fratello minore di Paolo. Perché solo un "pentito di Stato", capace di svelare i collegamenti all'interno di quella zona grigia che collega i due mondi, potrebbe probabilmente rispondere una volta per tutte a quelle domande che resistono ormai da trent'anni. E ad altre ancora più antiche.

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