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MONDODue anni fa... quegli ultimi e caotici giorni di normalità

16.02.22 - 06:00
Dalla paura dei ristoranti cinesi all'amuchina venduta a peso d'oro. Accadeva prima che il Covid arrivasse anche da noi.
Keystone / Deposit / Reuters / AFP
Due anni fa... quegli ultimi e caotici giorni di normalità
Dalla paura dei ristoranti cinesi all'amuchina venduta a peso d'oro. Accadeva prima che il Covid arrivasse anche da noi.
Aspettando l'annuncio del cosiddetto "freedom day", rivisitiamo cinque fatti e aspetti particolari della pandemia, ormai quasi dimenticati, risalenti al periodo precedente al nostro "day one".

LUGANO - Due anni sono un sacco di tempo. Lo sono quando li si osserva voltandosi indietro e, ancora di più, lo sono stati mentre ci siamo trovati ad attraversarli; non sapendo quando la luce in fondo al tunnel ci avrebbe infine avvolto. Il tanto atteso "freedom day". Due anni in cui abitudini, misure e cifre hanno assunto movenze meccaniche e ridondanti. Gli argini alla "caotica" libertà della normalità del prima. Ma caotici furono, inevitabilmente, soprattutto gli ultimi di quei giorni.

Quelli in cui si realizzava come quel misterioso coronavirus "proveniente" da Wuhan non fosse più un problema solo della Cina. Un problema lontano. No, il virus stava arrivando anche da noi. Anzi, era già qua. Ma non lo sapevamo. Lo avremmo saputo solo il 25 febbraio del 2020, giorno del primo caso confermato in Svizzera. Proprio in Ticino; un caso importato dalla vicina Lombardia, che stava per diventare in quei giorni il più grande focolaio di Covid-19 al mondo. Riavvolgiamo però i nastri all'indietro di un poco ancora; ai giorni che hanno immediatamente preceduto il nostro "day one" e ad alcuni fatti e aspetti, travolti poi dalle numerose mareggiate del virus, di cui ci eravamo nel frattempo dimenticati.

Quando il secondo focolaio al mondo era in mezzo all'oceano
Esattamente due anni fa, il 16 febbraio del 2020, la quasi totalità dei casi positivi confermati di coronavirus al mondo si trovava in Cina (51'174 su 51'857). Alle sue spalle la Corea del Sud (con 29) e l'Italia (con 3). Il secondo focolaio più grande al mondo in quel momento galleggiava però nelle acque dell'Oceano Pacifico, al largo delle coste giapponesi. La lussuosa Diamond Princess, lo ricorderanno soprattutto gli addetti ai lavori, occupò per diversi giorni quella posizione, arrivando a contare un massimo di 712 positivi su un totale di 3'711 persone a bordo. Numeri che al tempo parevano elevatissimi, ma che impallidiscono se confrontati con quelli con cui ci saremmo ritrovati a fare i conti di lì a poco.

Le prime "zone rosse" in Lombardia e Veneto
Bianche, gialle, arancioni e rosse. La gestione "a colori" dell'emergenza nella vicina Penisola è diventata in questi due anni un paradigma di routine, al pari dei diversi certificati Covid e dei metodi richiesti per ottenerli. Le prime due "zone rosse" del febbraio 2020 però furono qualcosa di diverso. Il numero crescente di casi positivi di quei giorni portò infatti il governo del Belpaese a blindare, con un decreto-legge ad hoc del Consiglio dei ministri, 11 comuni - 10 in provincia di Lodi (tra i quali si ricorda soprattutto Codogno) e quello di Vo', in provincia di Padova - per un totale di quasi 54mila persone. Era il 21 febbraio. Il tutto a pochi chilometri da noi. E poco più di un mese dopo, l'Italia era diventata il Paese più colpito al mondo.

Galeotto non fu il viaggio in Cina
Due anni dopo, l'origine esatta del virus SARS-CoV-2 resta avvolta nel mistero. Ciò che sappiamo è che i primi casi umani sono stati identificati e confermati sul finire del 2019 in quel di Wuhan, nella provincia cinese dello Hubei. Successivamente si sarebbe scoperto che in quello stesso periodo il virus già circolava anche nei Paesi del Vecchio Continente. Ma in quella fase, tanto ingarbugliata, che fu l'anticamera della crisi pandemica, le autorità sanitarie ancora non lo sapevano. E così la Cina fu considerata da subito uno dei criteri per identificare gli eventuali soggetti portatori di quel virus responsabile delle anomale polmoniti che avevano colpito alcune delle persone contagiate nell'ormai famigerato mercato. Un protocollo di sicurezza che può essere riassunto nella domanda: "Siete stati in Cina di recente?". Seguì lo stop ai voli da e verso la terra del Dragone. Ma fu presto chiaro - quando iniziarono ad ammalarsi decine di persone che in Cina non ci erano mai state e che non avevano avuto contatti con alcun viaggiatore - che il virus si era ormai trasferito anche alle nostre latitudini.

L'assurda paura... dei ristoranti cinesi
La pandemia - che in quei giorni era ancora "solo" un'emergenza di salute pubblica internazionale - (il "bollo" pandemico da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità sarebbe poi arrivato l'11 marzo successivo) - ha colpito duramente il settore della ristorazione. Ma prima di farlo con le misure di sicurezza e le chiusure, lo ha fatto con la paura. Tra le primissime vittime di quell'isteria si ricordano infatti i ristoranti cinesi e asiatici in generali, per molti dei quali la normalità si sgretolò improvvisamente con qualche settimana di anticipo rispetto alla concorrenza. Fu così negli Stati Uniti. Fu così in Italia. E sfiorò, anche se in modo più marginale, pure il nostro Cantone. Erano gli inizi di febbraio e quell'apprensione diffusa convinse l'Associazione culturale Ticino-Cina ad annullare la cena per il Capodanno cinese «nel rispetto di chi in questo momento non si sente di partecipare».

Disinfettanti cercansi: l'amuchina "a 24 carati"
Mascherine, quarantene e misure d'igiene. Il quadro delle misure per arginare la diffusione dei contagi ha visto i suoi contorni mutare nel corso di questi due anni; a volte per questione di contingenza (si pensi alle mascherine nel corso della prima ondata, non obbligatorie in quanto difficilmente reperibili) o per un colpo di mano del virus stesso, che ha sparigliato le carte in tavola. Lavarsi le mani e disinfettare le superfici è invece rimasto un caposaldo. E non sorprende che uno dei primi colli di bottiglia a cui la pandemia ci ha messo di fronte sia stato quello dei disinfettanti per le mani, che tra l'inverno e la primavera del 2020 diventarono di fatto introvabili nei negozi. L'unica soluzione era acquistarli online, ma a quale prezzo? Indimenticabile resta il caso dell'Amuchina in Italia, che il Codacons etichettò come «vergognosa speculazione», con rincari che raggiunsero il 500-600%.

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