L'Onu pubblica il rapporto completo sul genocidio dei rohingya in Birmania. La raccomandazione: limitare il potere dell'esercito
NAYPYIDAW / GINEVRA - Migliaia di uccisioni, sparizioni, stupri di massa e villaggi dati alle fiamme: l’Onu ha diffuso ieri il rapporto completo sulle “operazioni di pulizia” condotte dall’esercito birmano contro la minoranza musulmana dei rohingya nello Stato del Rakhine.
«Mai visto crimini così orrendi» - «Gli orrori inflitti agli uomini, alle donne e ai bambini rohingya durante le operazioni dell’agosto del 2017 sono al livello sia dei crimini di guerra sia dei crimini contro l’umanità», afferma Radhika Coomaraswamy, uno dei membri della missione. «Non sono mai stato confrontato a dei crimini così orrendi e su così larga scala», commenta dal canto suo il direttore della missione, Marzuki Darusman.
Stupri di massa per «intimidire» i civili - Tra i reati più frequenti, il rapporto sottolinea il ruolo che hanno avuto gli stupri e altre forme di violenza sessuale nell’«intimidire, terrorizzare e punire la popolazione civile». «Centinaia se non forse migliaia» di donne e bambine rohingya - oltre ad alcuni uomini e bambini - sono state «violentate brutalmente, anche in stupri di gruppo» in almeno dieci villaggi tra il 25 agosto 2017 e la metà di settembre dello stesso anno.
Legata a un albero e violentata - Come a Kyein Chaung, a nord di Maungdaw, dove una 35enne allora incinta di 8 mesi ha raccontato di essere stata presa a calci all’addome, spogliata, bendata, legata per i polsi ad un albero accanto a casa sua e stuprata da nove uomini: «Poi mi hanno lasciata legata all’albero. Mi ha trovata mia madre la sera. Il mio bambino è morto», ha raccontato agli inquirenti. Tra i soldati che l’avevano bloccata c’erano anche dei militari di una caserma lì vicino. Li aveva riconosciuti.
Un’altra vittima commenta: «Io sono stata fortunata, sono stata stuprata solo da tre uomini». Frequenti, prima e dopo gli abusi, erano le percosse, particolarmente brutali, a mani nude e con armi od oggetti. E i morsi, i cui segni erano visibili anche a distanza di mesi.
A uccidere c'era l'esercito, ma anche i civili buddhisti - Il rapporto dettaglia poi le uccisioni di massa in cui hanno trovato la morte «decine e, in alcuni casi, centinaia di uomini, donne e bambini». Tra i più efferati quelli di Min Gyi, Chut Pyin e Maung Nu. I militari arrivavano nei villaggi rohingya la mattina presto, senza preavviso e da più direzioni, accompagnati da poliziotti, guardie di confine e «spesso» civili di etnia Rakhine, buddhisti.
«Quando i soldati sono arrivati nel mio villaggio abbiamo iniziato tutti a correre e ci hanno sparato. Eravamo in cinquanta e più o meno la metà di noi è stata colpita. Chi veniva colpito cadeva a terra mentre correva. Alcuni sono morti, altri sono fuggiti. Non so come, io sono fuggita», ha raccontato una bambina scappata dalla zona di Maungdaw.
Processare il comandante in capo per genocidio - Nel presentare il rapporto, i responsabili della missione hanno confermato come i crimini perpetrati nel Rakhine sono simili, «per tipo, gravità ed estensione, a quelli che, in altri contesti, hanno permesso di stabilire l’intento di commettere un genocidio». Tra le altre cose, il rapporto invita così l’Onu a indagare e processare il comandante in capo del Myanmar, il generale Min Aung Hlaing, e gli altri alti esponenti del “Tatmadaw” (l’esercito birmano) per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Abusi e diritti negati anche al resto della popolazione - Il rapporto di 440 pagine sviluppato in seguito a 15 mesi di inchiesta non si occupa solo della presunta pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana rohingya nello Stato del Rakhine. Analizza infatti anche le violazioni delle libertà fondamentali, le «gravi violazioni» dei diritti umani e gli abusi commessi in particolare dall’esercito negli Stati birmani del Kachin, del Rakhine e dello Shan a partire dal 2011. Nello stesso Rakhine, per esempio, la popolazione di etnia Rakhine è regolarmente costretta a prestare lavori forzati.
Il rapporto biasima poi la condanna a sette anni di carcere dei due giornalisti di Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo, che con il loro «legittimo lavoro d'inchiesta» hanno fatto luce sull'uccisione di dieci uomini rohingya a Inn Din, «solo la punta dell'iceberg delle violente uccisioni di massa» che hanno avuto luogo nel Rakhine.
«Perché qualcosa cambi l'esercito deve passare sotto il pieno controllo delle autorità civili» - La missione conclude che nulla cambierà nel Myanmar fintantoché l’esercito birmano «rimarrà sopra la legge»: «Il Tatmadaw è il più grande ostacolo allo sviluppo del Myanmar come nazione moderna e democratica», affermano i responsabili. «Il comandante in capo del Tatmadaw, Min Aung Hlaing, e tutto l’attuale comando devono essere sostituiti e deve avere luogo una ristrutturazione completa per porre il Tatmadaw sotto il pieno controllo delle autorità civili. La transizione democratica del Myanmar dipende da questo», commentano i rappresentanti della missione.
Aung San Suu Kyi colpevole - Nell'ultima crisi il ruolo delle autorità civili, invece, è stato ben altro. Come già anticipato a fine agosto 2018, il rapporto emette infatti una sentenza senza appello rispetto alla premio Nobel Aung San Suu Kyi: «Non ha usato la sua posizione di capa di Stato de facto né la sua autorità morale per fermare e prevenire ciò che avveniva», si legge. «Al contrario, le autorità civili hanno diffuso narrative false e cariche di odio, hanno negato gli errori del Tatmadaw, hanno bloccato le inchieste indipendenti come quella di questa missione e hanno supervisionato l'abbattimento dei villaggi rohingya bruciati con i bulldozer oltre a distruggere i luoghi dove sono stati commessi crimini e le prove», aggiunge.