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LifestyleCapi streetwear equi a prezzi da H&M

22.06.22 - 14:30
Ecco come indumenti usati si trasformano in abbigliamento streetwear
#NSF
L’upcycling permette di dare una seconda vita a numerosi capi di abbigliamento che giacciono inutilizzati nel guardaroba.
L’upcycling permette di dare una seconda vita a numerosi capi di abbigliamento che giacciono inutilizzati nel guardaroba.
Capi streetwear equi a prezzi da H&M
Ecco come indumenti usati si trasformano in abbigliamento streetwear
Partendo da abiti usati, il marchio di moda svizzero Rework dà vita a capi streetwear dallo spiccato appeal estetico e si pone come concorrente sostenibile di H&M, Zara e C&A, anche se ha ancora alcuni problemi da risolvere.

Vestiti

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Questi sondaggi non hanno, ovviamente, un valore statistico. Si tratta di rilevazioni aperte a tutti, non basate su un campione elaborato scientificamente. Hanno quindi l'unico scopo di permettere ai lettori di esprimere la propria opinione sui temi di attualità.

Rework ha le idee chiare: il marchio svizzero di upcycling vuole introdurre una moda sostenibile nel cuore pulsante delle catene di fast fashion. Stiamo parlando delle vie dello shopping più frequentate dei centri città. «Vogliamo convincere i clienti che acquistano abitualmente da H&M», dichiara il direttore Kaspar Schlaeppi (53 anni). «Quando si entra nei nostri negozi, non ci si deve accorgere subito che i vestiti sono di seconda mano.» L’attenzione è rivolta principalmente all’estetica.

Nato nel 2019, il marchio Rework è attualmente presente con le proprie filiali a Zurigo, Berna, Bienne e Thun, talvolta con il nome di «Second Chance». Anche i punti vendita della catena di abbigliamento vintage Fizzen espongono in vetrina capispalla, pantaloni e accessori prodotti a partire da vestiti usati. Qui un indumento costa in media 40 franchi.

Produrre in India può davvero essere sostenibile?

«Rework non nasce per essere appannaggio dei ceti benestanti, bensì per realizzare vestiti che siano anche alla portata delle persone meno abbienti», afferma Kaspar Schlaeppi. Anche se l’obiettivo è di riuscire presto a produrre un terzo degli indumenti in Svizzera, al momento la maggior parte dei capi viene realizzata in Asia. In India, per l’esattezza. Nelle fabbriche di questo Paese vengono smistate ogni giorno tonnellate di vestiti che in Europa e negli Stati Uniti finiscono nei contenitori per la raccolta degli indumenti usati. I cosiddetti «vintage picker» scavano tra montagne di vestiti raccogliendo le materie prime di cui Rework ha bisogno per realizzare capi destinati al mercato svizzero.

Ma è coerente puntare sulla sostenibilità per poi produrre in un Paese a basso reddito a 7’000 chilometri di distanza? «Non tutto quello che facciamo è perfetto», ammette Schlaeppi, che non esita a mettere in luce i problemi. Nel 2021 ha ricevuto da una classe di scuola elementare diverse domande sul lavoro minorile e lo sfruttamento nel settore della moda. Schlaeppi ha immediatamente pubblicato online la distinta salari dei suoi dipendenti indiani. «I salari non hanno ancora raggiunto il livello che vorrei», afferma. Ciononostante, Rework non esternalizza il lavoro, bensì impiega in prima persona sarti e sarte, che possono così contare su un reddito stabile. Mentre durante la pandemia di coronavirus le grandi catene hanno annullato i propri ordini, Rework ha continuato a pagare i propri dipendenti.

Centinaia di tonnellate di capi fast fashion finiscono nella spazzatura

«Il grande problema dell’industria della moda è rappresentato dalla sovrapproduzione», afferma Schlaeppi. Soltanto in Cile, ogni anno vengono smaltite illegalmente 59’000 tonnellate di indumenti. Il deserto di Atacama si è così trasformato in una vera e propria discarica. A tale riguardo, Rework propone un modello alternativo dal futuro promettente: «Un articolo frutto dell’upcycling sarà sempre più sostenibile di uno di nuova produzione.» Non servono materie prime, superfici coltivabili e nemmeno agenti chimici.

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