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ATEDRemoto io, remoti tu, conviviamo 4.0

30.03.20 - 10:20
Di Luca Tenzi, esperto in corporate Security e Resilienza, consulente all’Agenzia Internazionale Energia Atomica
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Luca Tenzi
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Di Luca Tenzi, esperto in corporate Security e Resilienza, consulente all’Agenzia Internazionale Energia Atomica

LUGANO - Per quanto riguarda l’uso delle nuove tecnologie ICT, se vi fossero ancora dubbi, l’attuale emergenza #COVID19 ha modificato in maniera indelebile il nostro presente e mutato in maniera sostanziale il nostro futuro. Vi sarà un prima e dopo COVID19. L’accelerazione verso un’industria 4.0 o ad un eGovernament o eHealth che molti temevano. Questa pandemia ci ha spinto verso la futura società 5.0 in un salto quantico. Una società 5.0 centrata sull’individuo che possa godere di un'alta qualità della vita piena di vigore, riconoscendo un più elevato valore alla collaborazione tra uomo e macchina, in modo tale che vengano radicati nell’intera società i valori morali, etici ed economici della digitalizzazione. Forse non domani. Ma di sicuro vi sarà una nuova obbligata realtà 4.0 nel nostro futuro prossimo.

Difatti, con l’evolvere dell’epidemia le aziende e le istituzioni si sono lanciate in una corsa contro il tempo per instaurare l’ufficio 4.0 in tutti gli ambiti. Vi erano i migliori della classe che ne facevano già uso, che ora dicono di non aver subito impatti. Ma l’epidemia non evita nessuno. Il lavoro da remoto, telelavoro o smart working, diventano in una notte i nuovi modelli operativi sulla bocca di tutti. La panacea di tutti i mali. Lavorando da casa avremmo limitato la crisi economica, che l’epidemia - ormai dichiaratamente pandemia - crea al suo passaggio. La pandemia lascerà danni importanti, come un tornado che distruggendo tutto ciò che trova sul suo passaggio ricorda quanto la natura sia forte. Il telelavoro ci permette di nasconderci nei bunker preposti per proteggere dai tornando, ma quando si uscirà conteremo i danni.

Ma questi nuovi modelli 4.0? Poco conta sapere se vi sia una differenza tra telelavoro e smart working, di fatti per molti si riassume nel non andare sul posto di lavoro per evitare il contagio. Nel discuterne ci si rende pian piano conto che non tutti potranno lavorare da casa e che l’economia comunque rallenterà e la crisi che verrà ci sarà.

Una volta capito che in questa pandemia bisogna ridurre le interazioni umane, il #socialdistancing #iostoacasa sono il nuovo mantra. Anche le scuole si lanciano nella home schooling o remote schooling dell’ultima ora. Quelle stesse istituzioni scolastiche che da tempo lottano per non usare i supporti informatici, che non sanno come integrare i telefonini usati dai giovani, ora chiedono a questi stessi giovani di lavorare da casa. Avevamo osservato i progetti MOOC come sperimentazione o modelli anglosassoni o asiatici non necessariamente applicabili ad una scuola svizzera, che domanda ai propri giovani il presenzialismo istituzionale d’altri tempi. Ma l’onda pandemica spinge in pochi giorni alcune scuole professionali e universitarie a creare dei veri e propri programmi MOOC, non aperti ma per gli allievi. Una sfida anche per gli insegnanti non necessariamente preparati a insegnare davanti a uno schermo e una webcam. E qui alcuni mostrano l’eccellenza abituati a teleconferenze o a canali YouTube.

Questa sfida sembra non essere stata facilmente replicabile nelle scuole obbligatorie o professionali, incapaci d'identificare quali piattaforme collaborative usare. Quali programmi scolastici mantenere, quali materie insegnare e che materiale fornire. Ma ancora di più ci si rende conto che là dove i giovani hanno tutti uno smartphone molti non usano più il PC a casa. Molti lo hanno configurato in ottica gamer senza avere software office.

E poi ci siamo ritrovati tutti in casa!

In pochi giorni ci siamo ritrovati tutti sotto uno stesso tetto. Genitori e figli, generazioni diverse e distanti cercano di condividere questo momento dove le ICT la fanno da padrone. Tutti bloccati in casa cercando di essere smart workers, smart students, smart parents e smart family. Ma poi di smart scopriamo vi è poco. Le interazioni personali la fanno da padrone.

Le piattaforme tecnologiche di remote working cominciano a dare segni di cedimento. Sì perché non sono esclusive ma bensì usate da tutti. Le soluzioni di tele conferenza cominciano ad avere segni di latenza e anche lo smart working non è cosi smart se bisogna rispondere al telefono negli orari d’ufficio. Alcune società e organizzazioni ci hanno lasciato portare a casa il telefono IP dell’ufficio, perché se collegato alla nostra rete si configura da solo. Così ora il cavo parte dal router e attraversa la sala perché l’ufficio, anzi gli uffici, sono il lato destro e il lato sinistro del tavolo da pranzo della domenica. Perché in pochi hanno uno spazio ufficio domestico per ognuno.

Cosi gli smartstudent scoprono con orrore che ascoltare una lezione scolastica di qualcuno che non sa guardare nella webcam, senza poter porre domandare o far casino con il vicino di banco, non è poi così cool. Che alla fine il tragitto da e per la scuola era meglio che il tragitto camera-cucina-camera.

Gli smartworkers, ovvero noi, scopriamo con malcelata sorpresa che non poter chiacchierare con colleghi davanti a un caffè, ma solo con i propri figli e con il proprio consorte limita i soggetti di discussione. La pandemia non è più un soggetto di discussione a tavola anzi evitiamola.

Gli aperitivi virtuali cosi come i compleanni a distanza durano meno e una volta finiti lasciano quel senso di solitudine che lascia lo schermo spento di un PC. Persino fare le compere online non è più cool, preferiamo fare la fila anche per accertarsi che vi siano altri smartworkers vivi e vegeti.


Questo articolo è stato realizzato da ated - Associazione Ticinese Evoluzione Digitale, non fa parte del contenuto redazionale.
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